Essere nel posto giusto al momento giusto serve a ben poco se non lo si sa riconoscere. A Jessica Rosval è successo e non si è fatta sfuggire l’occasione. Arrivata in Italia dopo un’esperienza in patria, in Canada, con il sogno di lavorare nella cucina nostrana, si è trovata una sera a cena all’Osteria Francescana di Massimo Bottura. Quando lo chef stellato ha effettuato il suo consueto giro fra i tavoli a fine servizio, Rosval avrebbe potuto tranquillamente ringraziare per la cena – descritta da lei come “commovente” – e terminare così l’esperienza. E invece no. Uno scambio di contatti e di email dopo, la chef ha chiesto a Bottura di poter dare prova delle sue capacità proprio lì, alla Francescana. Bottura ha accettato e la vita di Rosval è cambiata per sempre.
Oggi Jessica Rosval è head chef di Casa Maria Luigia, la guest house di Massimo Bottura immersa nella campagna modenese. È inoltre co-fondatrice e direttrice culinaria di AIW, Associazione per l’Integrazione delle Donne, programma di formazione culinaria rivolto alle giovani donne migranti residenti a Modena che ha, fra le sue espressioni, il ristorante Roots.
La quotidianità di Rosval è fatta di lavoro di squadra, progetti in divenire e ispirazioni gastronomiche. E di sogni tanto sfaccettati quanto le persone che la circondano.
Jessica, cosa significa per lei Casa Maria Luigia?
Casa Maria Luigia è una storia inaspettata. Eravamo lì, sulla proprietà, un’azienda agricola di 350 anni abbandonata da oltre 100 anni. Ci domandavamo cosa sarebbe diventata, ed è nata l’idea della guest house. Ma bisogna contare che eravamo tutti ristoratori, non albergatori! Con Massimo e Lara [Bottura e Gilmore, N.d.R.] siamo partiti costruendo l’idea dell’albergo con la colazione in stile emiliano con tanto di forno a legna, un ambiente che ti fa sentire come se fossi a casa tua la domenica mattina. Quando abbiamo visto l’impatto forte, confortevole ed emozionante di questo luogo abbiamo deciso di crescere ancora, di espanderci verso nuove espressioni. Abbiamo aggiunto la cena che racconta gli ultimi trent’anni dell’Osteria Francescana con un menù degustazione cinque sere a settimana: Francescana at Maria Luigia. Poi, durante il Covid, abbiamo riaperto in giardino con il barbecue, Tòla Dòlza in dialetto, letteralmente take it easy. E proprio il prendere le cose con calma è diventato il nostro approccio, la voglia di creare esperienze gastronomiche in convivialità e con il conforto di un pasto in stile italiano. Abbiamo continuato a costruire finché Maria Luigia non è diventato il posto che è oggi, unico nel mondo in quanto ogni pezzo di questa proprietà è stato curato e creato dalle persone che lo vivono ogni giorno: Massimo e Lara, la Francescana Family, tutti noi che ci siamo trasferiti qua. Credo fortemente nell’approccio che abbiamo qui di guardarci attorno e di creare pasti che parlano fortemente di chi siamo, dove siamo e cosa sogniamo.
Quali sono le somiglianze e quali invece le differenze tra la ristorazione di Casa Maria Luigia e dell’Osteria Francescana?
L’Osteria Francescana è la mothership, il nucleo di tutto, la bottega rinascimentale per il pensare fuori dagli schemi.. Ci ha insegnato a interpretare il mondo. Casa Maria Luigia è una casa, vogliamo che le persone entrino e si tolgano le scarpe, mettano la loro musica, senza fretta. Per i menù degustazione i tavoli sono in condivisione, pensati per conoscere altre persone e fare esperienze inaspettate. La convivialità è il cuore di questo posto e ciò che lo rende autentico.
Parlando di casa, lei è spesso fuori per lavoro. Come fa a sentirsi casa nel posto in cui si trova?
Viaggio tantissimo, ma la casa secondo me è qualcosa che portiamo dentro di noi. È la nostra capacità di sentirci bene e immergerci nel luogo in cui siamo in quel momento. Io posso sentirmi a casa a Nuova Delhi come a Modena o a Montreal con la mia famiglia. Il mio sentirmi a casa dipende dalle persone e dall’ospitalità, ma anche dalla mia apertura a vivere le culture e i cibi, i piatti, i sapori di tutti i posti nel mondo. Quando riparto, voglio sentire che lascio un posto in cui vorrei stare e tornare, che sia Bangkok o gli Stati Uniti, un posto in cui c’è tanta bellezza, tanto amore tra le persone, esattamente come deve essere una casa. Questo permette di vivere il mondo intero e di conoscere persone incredibili ovunque. Lasciamo pezzi dei nostri cuori in ogni luogo, e quando il cuore è spezzato in un milione di pezzi, casa tua diventa il mondo intero. Ed è bellissimo sentirsi così tanto parte di una comunità internazionale. Questo senza escludere, naturalmente, che la mia famiglia di origine mi manca tutti i giorni, se potessi li metterei tutti su un aereo e li porterei qua.
Metterebbe la tua famiglia su un aereo per farla venire in Italia, quindi non tornerebbe per ora a Montreal?
Per ora no, ho troppe cose in sospeso qua, ci sono tanti progetti: le squadre, il ristorante sociale, Casa Maria Luigia. Tutte queste persone contano sulla mia presenza e io non prendo questa responsabilità con leggerezza.
Proprio a proposito dei diversi progetti in corso, come riesce a coniugare gli impegni da chef con il ruolo di direttrice culinaria di un altro locale qui a Modena, Roots, il ristorante dell’Associazione per l’Integrazione delle Donne (AIW)?
Una parola: squadra. Sono le persone che teniamo a fianco a noi e a cui diamo responsabilità, confidenza e spazio per crescere che ci aiutano a fare cose immense e ad avere veramente un impatto. Io da sola non riesco, sarebbe impossibile fare tutto questo. Abbiamo creato delle reti di supporto con le persone di Roots e di Casa Maria Luigia, abbiamo dato loro fiducia, e anche loro credono profondamente nei nostri progetti e ci aiutano a farli crescere ogni giorno. Cerchiamo di creare comunità in tutti i posti, perché è soltanto così che una persona può veramente raggiungere i suoi obiettivi e i suoi sogni.
Quindi la figura dello chef superstar che fa tutto da solo in realtà è un mito che non esiste.
Uno chef non fa niente da solo! Può essere magari la figura che comunica con la persone, che ha una grande parte nel processo creativo di quei piatti che diventano un’espressione della sua storia personale. Ma senza la squadra dietro, senza i camerieri, i sommelier, i lavapiatti, i commis, i fornitori, senza tutti loro non succede niente. E bisogna vedere e capire il valore di quelle persone, sapere che niente è possibile senza di loro e trasmettere loro il valore di quello che fanno ogni giorno. Così si crea una squadra forte.
Non si tratta dunque semplicemente di assegnare ruoli in cucina, ma di trasmettere a ciascuno il valore di ciò che fa.
È come un sistema, un network. Un ristorante senza il lavapiatti – si ferma tutto! Togli una persona della squadra, qualsiasi persona, e diventa tutto molto più difficile. Bisogna anche fare capire a tutti che non importa dove sono nel loro percorso, se stanno cominciando in cucina, se tagliano le verdure o puliscono i gamberi per ore: senza di loro crolla tutto. Facciamo sempre presente che anche noi eravamo lì, in quel ruolo, in un momento o in un altro nella nostra carriera, e va bene così. Se qualcuno ha appena cominciato, io non mi aspetto che sappia fare tutto, perché quando ho iniziato io non sapevo fare niente! Dobbiamo sempre ricordare da dove siamo arrivati.
In un momento storico come questo, dove si punta tantissimo sulla performance, è bello potersi concedere di non saper fare tutto subito e poter imparare e sentirsi giusti anche in ruoli più piccoli.
Esatto, anche se non li definirei ruoli “più piccoli”. Diamo valore agli chef dopo anni di esperienza, certo, ma non possiamo dimenticare il valore di tutti gli altri, che vanno avanti sulla loro strada e arriveranno. Mi sento onorata e con una grande responsabilità verso i giovani che vengono nella mia cucina: posso far capire loro che siamo lì per formarli, per aiutarli, che quello che noi facciamo con loro ogni giorno avrà un grande impatto su come diventeranno. La formazione è ciò che facciamo oggi con i giovani chef che entrano nel mestiere, è il futuro della ristorazione. Gli chef hanno una grandissima responsabilità. Se vogliamo vedere domani quei cambiamenti nella ristorazione di cui parliamo spesso – sostenibilità, uguaglianza, parità di genere – dobbiamo insegnarli oggi. E questo significa investire nei futuri chef.
Sul tema della formazione, qual è l’insegnamento più grande che per ora ha ricevuto da Massimo Bottura?
È difficile sceglierne solo uno. È il mio mentore da dieci anni. Il primo è non smettere mai di studiare. La cultura di leggere, di capire, di guardare, di cercare, è quella delle persone che continueranno sempre a crescere e ad evolvere. Lasciare sempre la porta aperta all’inaspettato è un’altra lezione importante. Non si sa mai cosa arriverà, quale ispirazione passerà davanti agli occhi che ci farà cambiare idea. Lui mi ha insegnato a essere più flessibile nelle mie osservazioni sulla vita, su di me e sulle mie idee. Gli devo tutto.
Visto che parliamo di apertura, quali gli orizzonti culinari che sente di non aver ancora toccato e verso cui vorrebbe orientarsi?
Vorrei continuare assolutamente sulla strada su cui sono adesso, che è una costante evoluzione nei servizi che facciamo qui a Casa Maria Luigia. Vorrei poi vedere molti altri ristoranti come Roots nel mondo, vorrei che quest’idea di condivisione ed empowerment diventasse contagiosa – prendere persone svantaggiate delle nostre comunità e, con le nostre conoscenze, dar loro il potere di crescere e vivere le vite che sognano di vivere.