È un film tremendamente ben recitato “The Master” di Paul Thomas Anderson (Il petroliere, Magnolia), ma quando si prova a voler cogliere qualche riferimento ulteriore che esuli dal rigido sentiero della narrazione di una semplice storia, il nostro sguardo si perde nel buio. Scova solo qua e là qualche flebile raggio di luce.
Due attori da Oscar ma dov’è il filo logico, l’introspezione? È un film piatto, eccessivamente piatto, nonostante l’eccellente fotografia.
La prolissa vicenda ambientata negli anni ’50 si basa su un gruppo riunito attorno al capo di una setta battezzata “La Causa”, Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), sedicente “scrittore, medico, fisico nucleare e filosofo teoretico” che col suo credo funge da collante tra i fedeli, inclusa la figlia Mary-Sue (Amy Adams).
Un giorno, tra i preparativi per il matrimonio della figlia, Dodd chiede aiuto a Freddie Quell (Joaquin Phoenix), un ex marine che si risveglia sulla nave di Dodd, in qualità di marinaio e preparatore di bevande alcoliche “miracolose” sfruttando come ingrediente, tra gli altri, del solvente per vernici.
I primi contatti tra i due non sono dei migliori. Quell, del resto, non viene da un passato facile: tra una madre finita qualche anno prima in manicomio, un padre deceduto per alcol e gli orrori della guerra dai quali cerca di fuggire, resta sempre marchiato dal trauma mentale che si porta dietro dalla fine del conflitto.
Una volta giunti a terra si scopre di più su “La Causa”, chiamata così per fuorviare ogni collegamento a Scientology, nata più o meno negli stessi anni, e sul suo modo di “curare” i pazienti. Il “Maestro” Dodd basa infatti le proprie teorie su una “nuova scienza” nettamente contrapposta a quella ufficiale. Anche se in teoria il metodo sembra funzionare, in pratica non è così. Quell si sottopone alla curiosa terapia di Dodd a base di domande su amori, affetti, istinti sessuali repressi ricevendo, di contro, risposte costantemente monosillabiche.
Sembra essere perplesso anche lo spettatore in sala che si aspetta continuamente quel fil-rouge, quella flebile lucina che pare scorrerci dinanzi agli occhi all’inizio ma che poi si affievolisce via via e non perviene più fino alla fine del film, in cui Freddie, semplicemente, scompare, con una risatina. Ma è forse proprio l’impianto di una sceneggiatura piatta che si lega alle teorie pseudo-scientifiche di Dodd il vero leitmotiv da seguire. Le lente vicende che si susseguono sembrano infatti funzionali alla pedanteria che circonda tutto il film. Per ricostruire il mondo devastato dalla guerra è allora necessario effettuare un processo di trasmigrazione dei propri ricordi traumatici nell’immaginazione come unica possibilità di riscatto, nella ferma credenza che tutto sia ancora possibile. Non a caso un’adepta domanda al maestro come mai, nel suo libro, si sia passati da un “riesci a ricordare?” ad un “riesci a immaginare?”.
Questa continua ricerca “a tentoni” di un tracciato da seguire, da parte dello spettatore vanifica, ad ogni modo, tutta l’aura mistica che invano il regista cerca di evidenziare.
The Master tradisce le attese come l’allievo, prima o poi, è tradito dal maestro. Anche se con qualche buono spunto, nel complesso resta un film ridondante e di debole impatto emotivo.
(di Luca Schirripa)