Qual è stato il tuo percorso per diventare casting director? C’è stato un momento o un incontro che ha segnato la tua carriera?
È successo un po’ per caso, ma col senno di poi direi che era destino. Da sempre sognavo di lavorare nella moda, solo che non sapevo bene in che ruolo. Poi, nel 2005, ho avuto l’occasione di fare uno stage nell’ufficio prodotto di Calvin Klein a Milano. Non sapevo nulla di tessuti o cartamodelli, ma ero curiosa, osservavo tutto e cercavo di imparare il più possibile. Finché, durante la settimana della sfilata di Calvin Klein vedendo queste file interminabili di modelle in attesa del casting, sono rimasta affascinata dal vero processo dietro le quinte. È stato quando dalla finestra del mio ufficio ho visto nel cortile tutte le modelle allineate in fila, ad una ad una a praticare la camminata con il casting director che dava direzioni e consigli che mi sono detta “Questo è il lavoro che voglio fare”. Non avevo la minima idea di come iniziare o chi contattare ma sapevo che quello era il mio destino. Ho rinunciato al contratto indeterminato che arrivò un mese dopo e ho contattato all’epoca la più grossa casa di produzione e casting di Milano. Marabini e Baiocchi. Dopo sei anni di lavoro assodato su Milano, imparando le basi del mestiere e gestendo clienti come Iceberg e Roberto Cavalli, ho avuto la possibilità di partire per l’America e li ho incontrato John Pfeiffer. Il mio mentore del casting. John, rinomato casting director americano e forse il fondatore del titolo stesso di casting director, non solo mi ha insegnato tutto quello che oggi faccio con naturalezza, ma mi ha trasmesso anche un valore fondamentale: l’umanità. Questo è un settore diretto, e molto competitivo, ma lui mi ha mostrato come mantenere sempre un equilibrio tra professionalità e rispetto per le persone. Oggi lavoro con alcuni dei brand e stylist più importanti al mondo. Se ripenso a quel momento, alla finestra di quell’ufficio, mi rendo conto che è stato l’inizio di tutto. E forse, in fondo, lo sapevo già.
Negli ultimi anni, il ruolo del casting director si è evoluto: quali cambiamenti hai osservato e come si è adattato il tuo approccio?
Quando ho messo piede in questo settore, nel 2006, si parlava ancora di supermodelle. A Milano, durante la settimana della moda, le giornate erano un susseguirsi frenetico di sfilate: una ogni ora, dalla mattina alla sera. Le modelle più richieste, le vere supermodelle, arrivavano a fare anche cinque o sei sfilate al giorno, con almeno tre cambi per ciascuna. L’adrenalina nel backstage era alle stelle.
C’era un’organizzazione quasi militare, ma anche un caos affascinante. Le modelle arrivavano all’ultimo minuto, a volte quando la musica della sfilata era già partita, e in pochi istanti venivano struccate, pettinate e truccate di nuovo. E lo stesso valeva per i modelli uomo. Durante il casting, più della metà della cabine (il gruppo di modelle e modelli scelti per la sfilata) era già definita: si puntava sui nomi più affermati, mentre i volti nuovi erano inseriti strategicamente, scegliendo quelli che si pensava sarebbero diventati le prossime star. Il ruolo del casting director, all’epoca, era soprattutto quello di un abile negoziatore, per assicurarsi le modelle di punta non solo per le sfilate, ma anche per le campagne pubblicitarie.
È stato con l’introduzione delle “esclusive” che la richiesta si è spostata non più sulle super ma sulle new faces. Questo ha un po’ segnato l’indebolimento del termine super models per le generazioni future poiché non erano più loro a diventare i volti delle campagne pubblicitarie dei brand.
In quel momento è stato un adattamento un po’ per tutti nell’ ambito. Da una parte, noi casting director a essere sempre informati di tutti i nuovi volti presentati per la stagione. E dall’altra la frenesia degli scout e agenzie che si sono dovuti mettere in moto per una ricerca continua. C’è stato poi anche l’aumentare delle collezioni. Alle classiche Spring/Summer e Fall/Winter si sono aggiunte le Resort e Pre-Fall, senza dimenticare la Haute Couture. Con più collezioni in calendario, la domanda di volti nuovi è cresciuta esponenzialmente, rendendo il lavoro del casting ancora più frenetico e strategico.
Oltre all’estetica, quanto pesa la personalità di un talento nella scelta finale? Ci sono caratteristiche che fanno davvero la differenza?
Entrambi sono importanti, ma ciò che noto subito è l’energia. Nei grandi casting pre-sfilata, dove vediamo centinaia di modelli in un giorno, l’energia giusta si percepisce immediatamente, come una ventata d’aria fresca.
Non cerco necessariamente una personalità spiccata al primo incontro. Molti modelli sono giovani, spesso alla prima esperienza, e magari non parlano nemmeno l’inglese. È normale che siano timidi. Questo aspetto mi incuriosisce perché lascia spazio per scoprire di più. La soddisfazione più grande è vederli trasformarsi: modelli che iniziano impacciati tornano dopo sei mesi con sicurezza, stile e una nuova consapevolezza. È sempre emozionante assistere a quel cambiamento.
Quali sono le sfide più grandi che affronti nel tuo lavoro e come le superi?
Oltre a mantenere costantemente la curiosità e l’attenzione per individuare nuovi volti, credo che la sfida più grande sia creare il “momento”. L’arrivo dei social media ha cambiato radicalmente la percezione del pubblico: prima si attendeva con trepidazione l’uscita di una campagna sui magazine o sui cartelloni pubblicitari. Oggi siamo bombardati da immagini e video ogni minuto, e l’attenzione verso un contenuto creativo dura al massimo forse un giorno.
Dal punto di vista del casting, la ricerca incessante di volti nuovi ha reso tutto molto frenetico, con un continuo spostamento dell’attenzione da un modello all’altro. Forse è solo una fase e, come in ogni ciclo, si troverà presto un nuovo equilibrio.
Nel quotidiano le sfide sono molteplici: gestire imprevisti con i booking, risolvere problemi sotto pressione e affrontare negoziazioni complesse con gli agenti. Con l’esperienza si impara ad anticipare le criticità e trovare soluzioni preventive. Tuttavia, il momento di panico può sempre arrivare, ed è fondamentale accettarlo e avere un piano alternativo già pronto.
Qual è il consiglio più importante che daresti a chi sogna di lavorare nel mondo del casting o di entrare nel settore moda?
Se penso al mio passato e a come io sono arrivata dove sono direi semplicemente “buttati”. È un mondo che va imparato sul campo. So che ora ci sono classi e corsi universitari, ma per esperienza personale il vero settore della moda si impara solo sul campo. Penso che nessun corso potrebbe avermi preparata alla realtà.
È un mondo decisamente duro e forse non fatto per tutti. Avere le idee chiare è fondamentale ma allo stesso tempo consiglierei di rimanere sempre aperti. Tieni le orecchie e occhi aperti e assorbi più che puoi. I settori nella moda sono tutti interconnessi.
È stata forse la scuola più dura della mia vita, ma sono grata per tutto quello che ho come skill adesso.
Inclusività e diversità sono oggi temi centrali nella moda. Come stanno influenzando il tuo lavoro e il modo in cui vengono scelti i volti per le campagne e le passerelle?
Siamo fortunati a vivere un momento in cui inclusività e diversità sono fondamentali. Il mio compito è dare un’anima agli abiti, e questo non può prescindere dal rappresentare persone di ogni provenienza, taglia ed età. Oggi queste non sono più variabili in discussione: il processo di casting parte già da un approccio inclusivo, con selezioni basate su criteri ampi e diversificati.
Come si bilancia la scelta tra volti emergenti e modelli già affermati in un casting?
È una questione di visione creativa. I volti affermati danno solidità e riconoscibilità a un progetto, mentre quelli emergenti aggiungono spontaneità e freschezza. L’obiettivo è sempre creare un mix che catturi l’attenzione e racconti qualcosa di nuovo. La sfida sta nel trovare il giusto equilibrio nella direzione creativa data dal singolo progetto: spesso una combinazione di entrambi crea una narrazione visiva più interessante e dinamica.