La poetessa del rock Patti Smith attraversa l’italia in 7 date in questa torrida estate 2013. Gilt Magazine era presente a una di queste: il 25 luglio a Milano, presso gli spazi immensi e industriali di Carroponte, per assistere ad uno spettacolo speciale, dove la sacerdotessa della musica indipendente ha riproposto integralmente “Horses”, l’album con cui ha debuttato e che l’ha resa famosa in tutto il mondo.
Patti è, per chi non la conoscesse, un simbolo di creatività e rottura di regole prestabilite, fin dai suoi esordi nel lontano 1975. Minuta, dal fisico nervoso ma sensuale, eclettica e colta, ha portato nel panorama musicale degli anni 70 la sfumatura di una femminilità prepotente e ammaliante. Influenzata da Dylan, con cui condivide il gusto per poesia e testi visionari dal sapore intellettuale, sviluppa però uno stile ruvido, senza fronzoli, antesignano del punk che di lì a pochi anni avrebbe ribaltato generi e atteggiamenti di carattere musicale e sociale.
Il suo ingresso in scena è di una serenità disarmante, da un’icona ti aspetti grandi effetti speciali, spettacolarizzazione, stupore. Ma la prima cosa di cui ti rendi conto quando Patti Smith sale sul palco è che lei stessa è l’effetto speciale, circondata da un’aura di fascino misto a magnetismo e carisma, non importa la distanza dello spettatore dal palco: il suo sguardo e la sua voce ti rapiscono, senza possibilità di scampo.
Il concerto è iniziato con “Gloria”, per poi seguire fedelmente i pezzi che hanno fatto di “Horses” una pietra miliare nella storia della musica. Ad un certo punto dello spettacolo, senza preavviso e con visibile sorpresa dell’organizzazione, la cantante è uscita ed è riapparsa poco dopo con dei fogli con su scritte parole, poesie, pezzi e flussi di pensiero che Patti voleva condividere con il pubblico e che hanno fatto da apripista per il resto dello spettacolo. Sembrava davvero di essere a un happening degli anni 70, i ritmi reiterati e ipnotici, la musica calda e avvolgente. La sensazione del tempo che si dilatava non è stata un’illusione ma l’effetto che Patti riusciva a infondere nel pubblico, la musica è un tutt’uno con lei e noi siamo un tutt’uno con la musica.
L’album “Horses” è, nonostante il tempo e le evoluzioni del gusto e della società (parliamo di pezzi che hanno quarant’anni), di una potenza e contemporaneità incredibili, un inno alla libertà e alla possibilità di coltivare dentro se stessi bellezza, cultura, coscienza politica e altruismo.
La seconda parte del concerto è stata preceduta da un medley garage rock, proposto dalla storica band che accompagna l’autrice in ogni suo tour e guidata da Lenny Kaye. Quello che dovrebbe essere un intermezzo di relax per la cantante è diventato un’ulteriore prova della sua carica energetica e comunicativa: interagisce con il pubblico, balla a lato del palco parlando, cantando e muovendosi a ritmo di rock con i suoi fan, abbattendo le distanze e confermando la sua capacità di ammaliare e stupire. L’età non si fa sentire sulle spalle della poetessa, artista e cantante: le trecce brizzolate si muovono al ritmo della chitarra di Lenny e l’allure da ragazzina non l’ha mai lasciata.
Nella seconda e ultima parte dello spettacolo si è passati agli evergreen, con momenti di grande commozione sia per il pubblico che per gli artisti sul palco quando Patti ha dedicato un pensiero al marito e al fratello morti prematuramente e si unisce al pubblico estendendo la dedica a tutte le persone che per un motivo o per l’altro non sono più con noi.
La fine del concerto è arrivata inaspettata, come se fossero passati solo pochi minuti dal suo ingresso in scena in jeans, giacca oversize e cappello bianco prontamente lanciato al vento e alla folla esultante. “Because the Night”, scritta per lei dal Boss Bruce Springsteen accende gli animi così come la profetica “People have the power”: il messaggio di Patti Smith non è cambiato in questi anni ed è sempre attuale: le persone possono davvero stravolgere il mondo se sono unite e credono in quello che fanno. Forse essere o diventare icone risiede proprio in questo: non perdere, a dispetto degli anni che passano e dei cambiamenti inevitabili che la società subisce, nelle sue evoluzioni, la capacità di ispirare fiducia in un messaggio. Non c’è quindi da stupirsi se nuovi miti fanno fatica a manifestarsi, siamo in un’epoca di scarse ed effimere convinzioni, impossibile reggere il paragone con la densità culturale ed emotiva di artisti come Patti Smith, che ancora oggi sono di ispirazione per le nuove generazioni, così come lo erano state per quelle passate.
Lo spettacolo, tra i vari bis e i saluti di rito, si conclude con una elettrizzante esecuzione di “My Generation” dei The Who, il pubblico in fibrillazione canta, salta e urla insieme alla cantante che per il gran finale imbraccia una chitarra elettrica a cui man mano fa saltare le corde, in una rievocazione di chiaro sapore punk. Il rock&roll non è morto e lei è ancora la sua insostituibile sacerdotessa.
(di Roberta Donato)