“Hai il diritto di pensare che mi sono presa gioco di te, che ti ho cercato in un momento di noia, che sono stata preda dell’eccitazione olimpica. Pensa quello che vuoi. Ma la verità è una rete fatta di tanti fili intrecciati, che sono le coincidenze, le occasioni mancate, l’impossibilità di ricrearle, e il filo più vistoso, quello che chiude la rete, è la necessità di non raccontare tutto, di tenere qualcosa per sé, di lasciare delle maglie di SILENZIO” (Margherita Oggero)
Come sarebbe un mondo senza rumori, senza suoni, senza voci, senza musica? Un mondo in cui quando frustano nella riva, le onde del mare non si lasciano sentire, un mondo in cui non si può urlare, un mondo in cui anche il pianto più straziante sembrerebbe soffocato perché incapace di farsi ascoltare? Come sarebbe?
Immaginate di rimanere intrappolati dentro un film muto in cui si comunica solo per smorfie e gesti, immaginate di non essere capiti, di cercare di esprimervi senza trovare alcun riscontro nell’altro. Purtroppo non è un luogo inesistente, non è una dimensione parallela, una brutta isola che non c’è vittima di un incantesimo malvagio, è la realtà di tutte quelle persone che non possono sentire e parlare.
Queste anime, la cui vita ai nostri occhi sembra semplice perché capaci di fare tutto, perfettamente integrate nel mondo dell’istruzione e del lavoro, in realtà non possono godere di una grande fortuna, quella di esprimersi e raccontarsi agli altri, a tutti gli altri.
Non possono comunicare, non per colpa loro, ma nostra principalmente, per colpa di chi ha avuto la grande fortuna di poter sentire e poter parlare ma che non ha risposto a tale dono della natura mettendosi in gioco per imparare il linguaggio dei segni. La loro parola.
Le persone sordo-mute non possono scegliere di farsi insegnare o meno a parlare l’italiano o l’inglese, non possono, eppure ci provano, si sforzano, piangono, soffrono per riuscire ad emettere suoni che loro stessi non posso percepire. Ma noi, che possediamo corde vocali e timpani ben funzionati, nonché mani pigre e spesso sfruttate per lo più per pigiare tasti, noi, non dovremmo sentirci in colpa per non conoscere il linguaggio dei segni? Non siamo forse noi quelli in difetto, i veri limitati in questa situazione?
Loro che non possono sentire si sforzano a parlare, e noi che pur di sfruttarle, le usiamo per grattarci e insultare, non potremmo impiegare queste belle dita per comunicare?
Tutto questo non dobbiamo farlo per noi stessi, per essere più capaci, per aumentare le nostre conoscenze, lo dobbiamo prima di tutto a loro. Siamo in obbligo nei loro confronti. Dobbiamo ringraziare la vita di averci dato il dono della parola e dell’udito, permettendo anche a loro di comunicare con tutto il mondo.
Un sordo deve poter chiedere ad un passante l’ora, o quanto manca all’arrivo di un autobus. Deve poter chiedere aiuto al vicino di treno se si sente male o domandare in quale scaffale è riposto lo zucchero nel supermercato alla prima inserviente che incontra lungo la corsia.
Sentiamoci noi i veri disabili della situazione, perché non ci manca niente eppure siamo incapaci di cogliere la richiesta d’aiuto e di comprensione di chi ci sta intorno.
Perché i sordomuti sono intorno a noi, in metropolitana, in farmacia e allo stadio, non sono una specie a parte segregata in qualche ghetto per disabili, ci camminano accanto ogni santo giorno ma evidentemente verso questo tipo di richiamo, siamo noi i veri non udenti.
Probabilmente, guardandoci questo straordinario e commovente film ricalcato da Randa Haines sul dramma teatrale omonimo di Mark Medoff, tutti quanti ci sentiremmo desiderosi di recuperare il tempo perduto a tapparci le orecchie con le dita, pur di non sentire una scomoda verità.
Esistono disabili a questo mondo perché chi li circonda, rende loro impossibile essere diversamente.
“Il silenzio ha il diritto di essere ascoltato, la gente parla troppo per quello che deve dire, parole senza significato, si dissolvono via e basta. Il silenzio deve essere ascoltato, il rumore dovrebbe essere osservato, il tempo è giunto per imparare, che il silenzio… il silenzio deve essere ascoltato” (Clive Cussler)
di (Giulia Betti)