“Steve Jobs”, in uscita nelle sale il 21 gennaio, si rivela il tanto atteso biopic sul fondatore della Apple, diretto da Danny Boyle (regista di Trainspotting e The Millionaire) e scritto da Aaron Sorkin. L’obiettivo dei due non è stato quello di restituire un’immagine del tutto positiva e piena di incondizionata ammirazione per una delle figure più influenti della storia moderna, ma piuttosto è stato quello di mostrare luci e ombre della vita di un uomo, pieno di fragilità e di irrisolti. Il film ruota attorno a tre momenti fondamentali della storia della Mela, di Jobs, e ai relativi scontri con gli altri protagonisti: la presentazione del Macintosh nel 1984, il tentativo di rilancio con i computer NeXT nel 1988, il ritorno di Jobs e dell’iMac nel 1999.
In questi contrasti emergono personalità e limiti di Jobs, che si raffronta, in ottica evolutiva, con l’amico e co-fondatore Apple Steve Wozniak, il CEO dell’azienda John Sculley, l’assistente Joanna Hoffman, l’ingegnere informatico Andy Hertzfeld, la figlia Lisa e la madre Chrisann Brennan.
Michael Fassbender cerca di interpretare Steve Jobs volendone sottolineare l’essenza visionaria e l’effetto cinematografico, andando incontro più all’opinione pubblica che al reale fine del regista e dello sceneggiatore: mostrare le debolezze di un uomo che non è mai riuscito a superare l’abbandono e il rifiuto dei genitori naturali, trasportando questo dolore soggiacente nel difficile rapporto con la figlia, che non vuole riconoscere.
L’immagine che il film attribuisce a Steve Jobs riflette la deriva dei rapporti umani in un mondo forse troppo dominato dalla tecnologia, delineando una figura fragile che ricerca nel rapporto con le macchine l’affetto che non riesce a provare fino in fondo nei rapporti umani, e che riversa l’ansia di controllo sui suoi prodotti, non potendolo avere sui sentimenti.
di Jessica Landoni