Joan Miró nasce a Barcellona nel 1893 e sin dall’inizio si avvicina alla pittura di Van Gogh, Cézanne e dei pittori fauves. Le pennellate delle prime creazioni sono veloci e decise, i suoi quadri raffigurano scene di vita catalana e la natura da lui osservata e tanto immaginata.
È solo verso gli anni Venti che, durante un viaggio a Parigi, si avvicina al cubismo e al dadaismo, correnti che lo conducono ad una concezione di arte più slegata dalla raffigurazione della realtà e libera da preconcetti: in questi anni le influenze espressioniste, che comunque presuppongono rappresentazioni del mondo circostante secondo personali sensazioni dell’artista, vengono decisamente superate per lasciar spazio a quelle surrealiste.
Miró passa, in questo modo, dalla concezione di “realtà che diventa un mondo di sogno” a quella in cui primaria importanza è attribuita al “gioco arbitrario dei pensieri” e al sogno, slegato dal reale.
La mostra, presentata al Mudec dal 25 marzo all’11 settembre ed ideata dalla Fundació Joan Miró sotto la direzione di Rosa Maria Malet, si concentrerà proprio su questa fase della carriera artistica del pittore, in una retrospettiva che andrà dal 1931 al 1981.
Le forme vengono rappresentate in modo semplificato e la realtà diviene composta da forme e simboli astratti, distribuiti secondo ordini logici a lungo meditati, in un equilibrio personale. È una pittura fantastica, che si fonde con la poesia e rimanda all’arte primitiva, per sperimentare una nuova chiave di lettura della realtà attraverso simboli ricreati: nelle tele, infatti, è possibile scorgere una traccia del reale, così come conosciuto e sperimentato dalla nostra mente (occhi, lune, mani). Alla materia e alla sperimentazione di procedure innovative viene conferita primaria importanza, sia come strumenti conoscitivi, che puramente fini a sé stessi.
di Jessica Landoni