Di aggettivi per elogiarlo se ne potrebbero enumerare a non finire, tutti giustificati, tutti meritati. Ma sarebbe come cadere preda di quella retorica che lui, con la solita grazia, deprecava.
È morto Paolo Poli. Si è spento a quasi 87 anni (li avrebbe compiuti il 23 maggio) in quella Firenze che gli aveva regalato i natali e l’accento toscano mai e poi mai abbandonato.
Persona di teatro tanto quanto ne è stato personaggio, Poli esordì nel 1958 recitando Samuel Beckett, presagio di quanto una vena surreale avrebbe permeato le sue opere future.
Intere generazioni sono state accompagnate dal suo sorriso sardonico e dalla sua voce modulata a piacimento, mentre la sua arte metteva a dura prova qualsivoglia etichetta di recitazione: dalle fiabe di Esopo narrate per la RAI con malizia neanche troppo celata, agli spettacoli en travestì in cui coinvolgeva star del calibro di Mina e Raffaella Carrà, passando attraverso rivisitazioni di opere come L’Asino d’oro di Apuleio e Santa Rita da Cascia, quest’ultima giudicata tanto oltraggiosa da meritare un’interrogazione parlamentare.
Da Franco Zeffirelli a Daniele Luzzati, da Tina Pica a Milena Vukotic: troppi da contare gli illustri amici, colleghi, compagni di spettacolo di un uomo che dichiarava: “La mia paga è l’applauso, il sorriso del pubblico”. Applausi e sorrisi che ha raccolto fino alla fine: la sua ultima apparizione sul palco risale al gennaio scorso, come ospite d’onore della riapertura dopo il restauro del Teatro Niccolini di Firenze, uno dei primi ad averlo ospitato.
Paolo Poli sembrava avere una parola – il più delle volte cinica – su tutto e tutti, spesso diretta (“Renzi non mi piace”, dichiarò a Lettera43), ma mai priva del garbo di chi amava considerarsi “più aristocratico che coraggioso”. Un uomo da considerare l’emblema di come una cultura sterminata e una conoscenza quasi enciclopedica possano anche non prendersi troppo sul serio, anzi, essere poste al servizio di una trasgressività istrionica senza essere sguaiata.
Proprio a proposito del suo essere sempre stato considerato trasgressivo si espresse così: “La mia mamma era d’accordo con me, pensava come Jean Jacques Rousseau. Diceva Paolo, fai come ti senti, il bambino è perfetto, sbagliata è la società”.
di Martina Faralli