Che cosa vuol dire essere una 32enne e avere davanti a sé una carriera brillante, che ti riempie il cuore, ti fa sfogare, essere te stessa e contemporaneamente ti permette di vivere della tua vera passione? Non è facile oggigiorno sentire giovani così entusiasti e realizzati ma, come dice una celebre canzone, “Uno su mille ce la fa” e lei ce l’ha fatta, eccome se ce l’ha fatta! Stiamo parlando di Raffaella Silvestri, giovane milanese intraprendente e dinamica ma con un romantico sogno nel cassetto: fare la scrittrice. Oggi, dopo tanti sacrifici, si affaccia sul panorama letterario come autrice de “La distanza da Helsinki” (pubblicato nel 2014) e non solo…
Ecco per voi l’intervista che Gilt ha realizzato alla special guest di questo mese! Buona lettura!
Giovane, bella, sicura di sé e ora scrittrice molto seguita. Cosa ti ha spinto a intraprendere la carriera letteraria?
Ho sempre voluto scrivere, più o meno da quando ho capito che qualcuno scriveva i libri che mi piaceva leggere. Allo stesso tempo ho sempre avuto una specie di ingordigia di esperienze, una cosa che ho in comune con molti miei coetanei. C’era la voglia di andare via dall’Italia, e sono andata a vivere in Finlandia, il paese europeo culturalmente più lontano dall’Italia; la voglia di studiare in un modo diverso, e mi sono laureata a Cambridge, facendo una gran fatica ma divertendomi anche molto. Ho lavorato in due grandi aziende, e poi un giorno ho lasciato un lavoro sicuro per dare una reale possibilità (e tempo) alla scrittura, e molti mi hanno dato anche della pazza. Insomma, una miriade di corse, commistioni, casini anche: la scrittura è una costante, ma non credo nella purezza, nelle storie lineari, perché raramente sono vere.
“La distanza da Helsinki” è il tuo libro di esordio, due giovani che si incontrano a Londra e s’innamorano. Storia per nulla banale, anche perché affronti in maniera accurata il tema del dolore. Cosa ti incuriosisce di questo sentimento e cosa si scatena in te al suono del ticchettio delle lancette dell’orologio che paiono non volersi fermare?
Quello che racconto non è un dolore che urla: i miei personaggi si muovono nella striscia sottile di una sofferenza delicata, che è quella che viviamo quasi tutti, una certa scomodità di esistere, non per questo eclatante, non sempre drammatica. Abbiamo tutti una parte oscura con cui dobbiamo convivere, io cerco di guardare dentro a questa cosa. Il tempo che passa e l’effetto che ha sulle persone e sui luoghi è un tema che mi ossessiona da sempre; quand’ero più giovane c’era appunto l’“ingordigia di esperienze”, questo timore di non riuscire, di non fare in tempo; crescendo c’è un passaggio a un modo di vivere più autentico, la consapevolezza che diventare adulti in un certo senso è una liberazione da tante pressioni esterne.
In quale momento della tua vita avresti voluto bloccare il tempo e vivere intensamente, come immobile, quell’istante?
Una giornata di sole ad Agosto del 2006, in Finlandia. Il sole che non tramonta mai, nessuna voglia di dormire. Il 1 Gennaio 2015. Una notte la scorsa estate. Tutte le volte in cui la felicità ti coglie di sorpresa perché un periodo difficile è finito e tu non te ne sei ancora accorto.
Cosa ami fare quando hai la possibilità di chiudere lo schermo del computer e prendere un sospiro di sollievo?
In ordine sparso o quasi: leggere; andare in India; trovare ingombranti gioielli orientali in India; fare foto (ovunque); insegnare (allo IED).
Nel 2017, con Garzanti, uscirà il tuo nuovo libro. Ci riveleresti tre aggettivi che useresti per descriverlo?
Facciamo tre sostantivi: caduta, cambiamento, futuro.
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Photo credit : Chiar Luzzitelli e Francesca Cari
di Federica Giampaolo