“Campione del super and popular degli anni 2000” (Alberto Alessi), “Re Mida del design” (Cristina Morozzi), “Il designer più bankable” (Eugenio Perazza): queste sono solo alcune delle definizioni che appartengono all’affermato designer Stefano Giovannoni, creatore di numerosi bestseller e prodotti di grande successo commerciale. Gilt Magazine ha avuto l’onore di scoprire qualcosa in più sul suo mondo e suoi suoi progetti.
Mi sorge spontaneo chiederle com’è nata la passione per il design e quanto è stata significativa per la sua carriera la collaborazione con Alessi; dei tanti oggetti che ha progettato per il Brand, ne ha uno preferito?
Mi sono laureato in Architettura a Firenze nel ’78 e ho avuto la fortuna di avere come insegnanti dei grandi maestri; per citarne alcuni Remo Buti, Gianni Pettena, Fabrizio Galli ecc. Se all’epoca Milano era considerata la città industriale per antonomasia, Firenze era quella della sperimentazione e della ricerca. In quegli anni si è sviluppato il movimento dell’Architettura Radicale, che ha focalizzato l’attenzione sui modi alternativi di concepire il Design anche al di fuori dell’industria. Figure di spicco come Ettore Sottsass e Alessandro Mendini, hanno tracciato una linea parallela rispetto a quella del design industriale, attuando un atteggiamento anche critico nei confronti della disciplina e dell’operare del designer e dell’architetto. Il mio lavoro con Alessi deriva proprio dal rapporto con Alessandro Mendini, in quegli anni Direttore di “Casabella” (alla fine degli ’80 invece dirigeva “Ollo”). Andai da lui per pubblicare il lavoro del gruppo che avevo creato con Guido Venturini, King Kong, e fu in quell’occasione che il Mendini comunicò di volerci presentare ad Alberto Alessi. Lo incontrammo la settimana successiva a Crusinallo, dove ci chiese di disegnare una serie di oggetti tra cui un vassoio; venne alla luce così “Girotondo”, primo nato e mio preferito, prodotto che ha cambiato in maniera importante non solo il corso della nostra carriera, ma anche quello dell’Azienda, diventando il bestseller assoluto nella storia del design italiano con 10 milioni di pezzi venduti.
Da dove prende ispirazione per le sue creazioni? Quali sono le caratteristiche che deve avere un oggetto “cult”? E soprattutto, com’è cambiato nel tempo il suo modo di progettare?
Un oggetto deve riuscire ad affascinare il grande pubblico e comunicare con una fascia più ampia possibile. Così come un programma televisivo ha la necessità di essere comprensibile a tante persone, anche un prodotto industriale deve avere assolutamente questa caratteristica. “L’appeal” del progetto determina inoltre un ritorno importante dal punto di vista economico; si tratta di un percorso che va affrontato con grande professionalità. Il designer deve riuscire a capire quelli che sono i desideri del pubblico e trasformarli in oggetti che diventino “cult”. Ad oggi, in un mercato omologato, ciò che principalmente deve caratterizzare un prodotto è l’identità, unita ad iconicità e forza di comunicazione. Con il tempo ovviamente il modo di approcciarmi al progetto è cambiato, inizialmente ero più istintivo. Il Girotondo e il Sale e Pepe “vennero fuori” impulsivamente. Con il passare degli anni subentra invece come componente tutta l’esperienza maturata. Alla base del mio lavoro c’è il tentativo di creare ogni volta un progetto che abbia un appeal e una caratteristica emozionale comprensibili non solo ad un pubblico di “addetti ai lavori”, ma anche a “persone comuni”. Nei miei progetti c’è sempre l’idea di rendere il design più accessibile e più democratico possibile.
Viviamo in un’epoca sottoposta a mille cambiamenti: sociali, ambientali, culturali e specialmente tecnologici. Che importanza ha per lei la tecnologia, e quanto influisce sul design e viceversa?
La tecnologia è importantissima! Se pensiamo a com’era il mondo dieci anni fa prima di Internet, constatiamo che la qualità della vita è totalmente cambiata; viviamo in una realtà diversa. E questo è fondamentale per lo sviluppo dei prodotti. Prima si doveva affrontare un percorso progettuale lungo e complesso; oggi, con i computer, riusciamo invece a trasferire il nostro immaginario e a visualizzarlo immediatamente, studiamo tutte le minime modifiche e varianti in maniera estremamente puntuale. E’ un aiuto incredibile nell’estendere la nostra capacità di immaginare gli oggetti. Quando manca il supporto tecnologico, inevitabilmente si incontrano delle difficoltà; ora siamo in un momento di questo genere. Dopo l’uscita dell’iPhone, che ha rivoluzionato il mondo del mobile, stiamo vivendo un periodo di omologazione, e si presenta dunque il rischio che un oggetto così importante come il cellulare si riduca al suo display. Per questo motivo, ad oggi, per un designer, innovare e creare uno smartphone nuovo diventa un’impresa quasi impossibile, si possono avere delle idee, ma non sempre la tecnologia ha subìto quell’evoluzione tale da poterle attuare, e di conseguenza non è in grado di supportarti. In questo campo il design non è più capace di essere l’elemento propulsivo per l’innovazione.
Lei è entrato in contatto con moltissime aziende e designer. C’è stata qualche collaborazione in particolare che è risultata essere più difficile rispetto ad altre?
E’ chiaro che ogni collaborazione è diversa dall’altra, ciò comporta pregi e difetti. Negli ultimi anni sono aumentate le collaborazioni con le aziende asiatiche; spesso affrontiamo progetti che dall’altra parte hanno un committente molto distante dal nostro modo di pensare e lavorare, qualche difficoltà è normale che emerga.
Durante il Salone del Mobile 2016 ha debuttato con Qeeboo, progetto caratterizzato da una nuova matrice figurativa, ironica e coraggiosa. Secondo lei si può parlare di una nuova concezione del design?
Senz’altro! Non voglio essere io a celebrarla, ma stiamo entrando in tutti i department store di lusso internazionali, e questo è molto significativo. Qeeboo ha avuto un feeling talmente immediato da lasciare sorpreso anche me. Nonostante abbia disegnato tanti prodotti di successo non ho mai visto qualcosa di così devastante, principalmente perché è caratterizzato da una forte identità. Oggi stiamo attraversando un momento in cui il design, soprattutto nel contesto dell’arredo, è estremamente omologato; le differenze tra un prodotto e l’altro, e un’azienda e l’altra, sono davvero minime. Qeeboo riveste un ruolo di rottura rispetto all’ambito del design tradizionale, e ciò è stato subito recepito dai buyer internazionali. Attualmente stiamo collocando il Brand nelle “situazioni chiave” della distribuzione di ogni paese, per poi cadere a pioggia sul retail più tradizionale, o comunque più legato al mobile. Gli oggetti nascono un po’ per caso, ma l’idea ha sempre dietro un concetto. Non disegnerei mai un coniglio “tanto per”; la cosa interessante di questo oggetto (la Rabbit Chair) è che è una sedia. L’idea è quella di mettere a contatto due cose apparentemente estranee tra loro: da una parte un coniglio e dall’altra una seduta; questo probabilmente è il segreto del suo successo.
Ad oggi alcuni architetti e designer hanno raggiunto fama e successo a livello internazionale, i cosiddetti “Archistars”. Com’è possibile diventarlo? Che consiglio si sente di dare ai giovani d’oggi che desiderano intraprendere questa carriera?
Volate alto, il segreto è creare cose straordinarie! Se i giovani designer riescono a pensare in grande e a creare prodotti che abbiano un’identità forte e una giusta collocazione nel mondo del design, allora hanno speranza di riuscire a trovare la strada giusta. Lavorare facendo compromessi pur di andare in produzione, significa rischiare di intraprendere un percorso a breve termine. Oggi, il giovane designer italiano soffre di mancanza di visione e prospettiva. Per emergere bisogna cercare qualcosa di veramente innovativo e straordinario, e questo input spesso manca ai ragazzi che escono dalle nostre università. Prima la creatività era in mano alle avanguardie che volevano cambiare il mondo, oggi invece è diffusa: tutti vogliono essere creativi, ma nulla viene fuori in maniera forte e rappresentativa come avveniva in passato. Inoltre assistiamo ad una dispersione di identità; designer, interior designer, product designer ecc; Ciò che ho compreso nel tempo è che non serve andare a differenziare le tante sottocategorie, il nostro lavoro lo si deve estendere al mondo della filosofia, dell’arte, dell’architettura. Ai miei tempi è stata fondamentale la lettura di Baudrillard per riuscire a comprendere il mondo dei consumi e l’evoluzione della società tecnologica, senza di essa non sarei riuscito a creare un certo tipo di oggetti.
Ringraziamo Stefano Giovannoni per la sua estrema professionalità e gentilezza!
di Annamaria Aufiero