Nata e cresciuta a Roma, fiera italiana ma, è lei stessa a confessarlo, ormai mezza inglese. Laura Luchetti è uno di quegli ottimi esempi che fanno volare alto la regia italiana – a maggior ragione quella femminile – anche fuori dal confine. E a confermarlo, anche se l’invidiabile carriera all’estero lo testimoniava già, arriva la selezione del suo Fiore Gemello da parte del prestigioso Toronto International Film Festival. A pochi giorni dalla rassegna, Laura racconta degli esordi e degli ultimi progetti, con qualche augurio per il futuro.
Cara Laura, i tuoi studi non strettamente artistici in Scienze Politiche e Gestione d’Impresa alla fine ti hanno comunque condotta ad una carriera culturale e creativa. Quando hai capito che questa era la tua strada?
Mi sono laureata in una materia che mi piaceva moltissimo, perché pensavo di fare carriera diplomatica; però ho sempre avuto una grande passione per il cinema e per il teatro. Vengo da una famiglia di due grandi cantanti d’opera, quindi nell’ambiente artistico ci sono cresciuta, pur mantenendo un certo distaccato rispetto dal lavoro dei miei genitori. Durante gli studi, comunque, ho fatto più volte la comparsa al Teatro dell’Opera, l’assistente di palcoscenico e perfino il “tuttofare” per gli attori. Così, quando dopo la laurea mi sono recata a Londra per quelli che dovevano essere solo tre mesi di studio dell’inglese, alla fine ci sono restata per tredici anni! È lì che ho cominciato a fare corsi di cinema e che ho girato il mio primo cortometraggio. L’esigenza è nata a partire dai racconti che scrivevo, avevo capito – con grande entusiasmo, ma anche molta umiltà – di voler passare ad un’altra dimensione. Perciò direi che sicuramente non ho una preparazione accademica, ma ho cercato di imparare il più possibile facendo gavetta: iniziando dalla produzione, per poi lavorare un po’ in tutti i reparti, anche al fianco di grandi attori come loro assistente.
Fra i tuoi lavori figurano parecchi cortometraggi, documentari, animazioni e da qualche tempo anche lungometraggi. Qual è il format che prediligi per esprimerti e perché?
Personalmente credo che ogni storia che si vuole raccontare abbia un suo format specifico. Per esempio, quando mi viene in mente una storia breve tendo a rappresentarla con un cortometraggio, se invece penso prettamente ad immagini scelgo una video art. Il mio primo progetto in animazione a passo uno, intitolato “Bagni”, era nato da una storia di cui mi ero innamorata e ispirata ad una persona vera. Ho deciso di cimentarmi così per la prima volta in quella che poi è diventata una grande passione, soprattutto grazie ai Moonchausen Lulù Cancrini e Marco Varriale. Subito dopo, infatti, è arrivato il secondo progetto di animazione, questa volta legato ad un’esperienza personale di vita che secondo me si traduceva così nella maniera migliore. Direi che l’importante è cercare sempre di fare le cose per bene, per questo mi auguro di riuscire ogni volta a tradurre le mie storie nel format che più le rispetti.
A proposito di questo, Sugar Love è il tuo ultimo corto di animazione che sarà presente al Festival di Venezia come Evento Speciale della Settimana della Critica. In soli pochi minuti concentra temi importanti come quelli del matrimonio, della fedeltà e dell’amore eterno. Forse qualcuno, magari i più giovani, potrebbe però sentirli come superati. Perché invece tu li ha scelti e cosa hai da dire al riguardo?
A partire dai tempi della tragedia greca fino ad oggi, le storie sono state catalogate sulla base di sette tematiche, sempre le stesse, che ritroviamo da “Edipo Re” a “Scarface”. Non ce ne possiamo inventare di nuove perché non esistono temi antichi o temi moderni, per giovani o per anziani, al massimo esistono modi nuovi per raccontarli. Per questo penso che la volubilità dei sentimenti non potrà mai passare di moda. Al di là di questa constatazione generale, personalmente ho notato che molto spesso le bomboniere durano più dei matrimoni celebrati, così mi è venuta l’idea di un amore che, seppur finto e di zucchero, sia più vero di quello reale fra gli individui. Gli esseri umani nel mio corto sono ombre dai volubili sentimenti, invece sono le statuette di zucchero ad esser reali. A volte, tutto quello che riteniamo finto e stereotipato rappresenta un sentimento molto di più di chi lo dovrebbe vivere in carne ed ossa. La tecnica che abbiamo adottato per girare questo corto, il passo uno, è vecchissima: in realtà, quei pochi minuti sono costati un anno di duro lavoro. Si è trattato di una vera e propria forma di artigianato che, almeno nel nostro caso, non ha previsto set digitali, tutto è stato realizzato a mano, dai vestiti ai movimenti. È una scelta a cui tengo molto perché si inserisce in pieno nel gran ritorno all’analogico che stiamo vivendo nel nostro tempo, e che non possiamo ignorare. Proprio per questa ragione non credo che antico e moderno siano fissi o separati, c’è sempre un corso e ricorso.
Fra i doppiatori di questo lavoro figurano grandi nomi come Anna Ferzetti e Pierfrancesco Favino. Com’è stato lavorare con loro e come è nata questa collaborazione?
L’idea di coinvolgerli è nata innanzitutto perché li stimo come attori e li desideravo moltissimo. Inoltre, per doppiare la voce di una coppia che si ama moltissimo come Gemma e Marcello (i due protagonisti del corto ndr.) volevo la voce di due persone che si amano per davvero. Sono stata molto fortunata perché quando l’ho chiesto loro, circa due anni fa, hanno subito accettato. Per quanto riguarda gli altri interpreti, ci sono due miei cari amici ed ottimi attori, Andrea Bosca e Claudia Potenza, e degli ospiti fantastici, Fabio Canino, Eleonora Russo e Fabrizia Sacchi, che si sono buttati con entusiasmo in un progetto che per loro era ancora sconosciuto. Li ringrazio tutti molto!
Parliamo del tuo ultimo lungometraggio, Fiore Gemello, il cui copione è già selezionato dall’Atelier del Festival di Cannes e dal Sundance Screenwriters Lab, che avrà la sua prima mondiale al Toronto International Film Festival. È un lavoro impegnativo in cui si incontrano due mondi diversi: la Sardegna di Anna (Anastasiya Bogach) e la Costa d’Avorio di Basim (Khalil Kone), un rifugiato che cerca protezione in Europa. Una tematica dettata dall’attualità?
Questo film è una storia sull’innocenza, un tema a me molto caro. Sulla sua perdita e poi sulla sua successiva riconquista. Entrambi i personaggi, infatti, vivono in un mondo violento e hanno perso la loro innocenza. Si trovano e, pur venendo da due mondi diversi e non parlando la stessa lingua, si uniscono in una Sardegna che li protegge e minaccia allo stesso tempo. Anche se uno dei due protagonisti è un immigrato clandestino, questo non è un film sull’immigrazione. Quello che volevo raccontare era più che altro un’amicizia forte, un rapporto unico ed indefinibile fra due anime sole, nato da un incontro fortuito. Lei fugge dal suo passato, mentre lui rincorre il proprio futuro. L’idea l’avevo da molto tempo e non è stata di facile realizzazione. I due attori protagonisti sono entrambi alla prima esperienza, Khalil è effettivamente scappato dalla Costa d’Avorio, ha dovuto raggiungere a piedi la Libia e da lì via mare è arrivato in Sardegna dove – peraltro – l’accoglienza ai migranti è fra le migliori che abbia visto. Anche Anastasiya è figlia di migranti e ha origini ucraine. Questa loro ferinità, purezza, autenticità, me li ha fatti sentire subito come diversi. Avevo fatto molti provini prima di trovarli, ma quando li ho visti ho capito che erano loro che cercavo e sono molto fiera del risultato.
Al Toronto Film Festival sarai l’unica regista donna. Come hai accolto la notizia? Con entusiasmo per l’esclusività dell’opportunità o con una certa amarezza per il ruolo ancora minoritario riservato alla regia femminile?
Nonostante la categoria Discovery sia stata rivelata per ultima dal TIFF, io avevo ricevuto la notizia della nostra selezione mesi addietro. Ero felicissima e mano a mano che rivelavano le varie categorie del Festival e leggevo i nomi dei grandi registi italiani selezionati, la felicità aumentava. Ho trovato che fosse bello essere un italiano, prima che una donna, selezionato a Toronto. Al di là del genere, infatti, ritengo che l’importante sia che il nostro Paese venga rappresentato da buoni prodotti. Oggi comunque ci sono assai più donne che fanno regia, anche all’interno del Centro sperimentale e nelle scuole di cinema. Toronto, in particolare, si pregia di aver fatto delle scelte che hanno determinato una percentuale sopra al 40% di registe donne presenti. Sicuramente in futuro arriveranno ancora più italiane che porteranno una ventata di cose belle. Il cambiamento è proprio dietro l’angolo!
Ed infine, hai spesso lavorato a Londra, dove hai girato il primo corto In Great Shape, e a contatto con il mondo anglosassone come assistente del pluripremiato Russell Crowe. Credi che, nel tuo campo, il panorama inglese offra più opportunità e sia più meritocratico?
Diciamo che nei regimi anglosassoni vige una competizione molto rigida in tutti i campi del lavoro, non solo in quello cinematografico; un grande sforzo spesso porta anche dei buoni risultati. Personalmente ho dovuto faticare molto, ho iniziato con società di produzione piccolissime e con solo i nostri mezzi, piano piano, abbiamo avuto soddisfazioni. Nelle nostre aree mediterranee non sempre accade lo stesso. In definitiva, forse potrei dire che soprattutto nel mondo americano c’è più accesso alle opportunità. Per esempio, l’occhio sulla regia femminile lì ha cominciato ad aprirsi un po’ prima che in Italia. Però mi auguro che anche da noi possa sempre più svilupparsi un sistema basato sulla sana meritocrazia. E sono sicura che siamo su un’ottima strada.
La Redazione ringrazia Laura Luchetti per la sua grande disponibilità e cordialità!
di Gaia Lamperti