In occasione della Milano Fashion Week, la Galleria Sozzani inaugura “Time at Work”, personale dedicata a Sarah Moon. La mostra rende omaggio ad uno dei volti femminili più rilevanti nel panorama della fotografia europea, nata in Francia nel 1941 come Marielle Warin.
Da modella a fotografa negli Swinging Sixties
Proveniente da una famiglia di origini ebree, a causa dell’occupazione nazista la piccola Marielle è costretta ad emigrare in Inghilterra, dove cresce e trascorre l’adolescenza nell’atmosfera di fermento culturale della Swinging London. Proprio in questi anni inizia a lavorare come modella tra Londra e Parigi e ad intrattenere rapporti con maestri della fotografia quali Helmut Newton e Irving Penn. Questo passaggio si rivelerà fondamentale per la sua futura carriera di ritrattista, poiché le permette di comprendere e studiare il funzionamento delle luci sul set. Già nel ’67, sotto lo pseudonimo di Sarah Moon, abbandona il mestiere di mannequin per passare dietro all’obiettivo, dedicandosi alla fotografia pubblicitaria per noti marchi di moda.
Evoluzione di uno stile fotografico
Celebri sono i gli scatti per Cacharel e per testate del calibro di Vogue e Harper’s Bazaar, ma anche quelli che nel 1972 la vedono come prima donna a firmare il Calendario Pirelli. I fini commerciali delle commissioni di moda non le impediscono di sviluppare una profonda libertà espressiva, che si evolve presto in un linguaggio estremamente personale. È l’inizio di un immaginario poetico e visionario, evocazione di momenti che esprimono le sensazioni della fotografa.
L’inquietudine della maturità artistica
Quella di Sarah Moon è una narrazione che con la maturità assume gradualmente un senso di gravità ed inquietudine; l’incombenza del tempo che scorre è infatti il filo conduttore delle opere esposte alla Galleria Sozzani nel corso della Milano Fashion Week. “Time at Work” presenta una serie di scatti inediti dal 1995 ad oggi, accompagnati dal film documentario “There is something about Lillian” (2001) e dal cortometraggio “Contacts” (1995). L’artista, angosciata dai minuti che passano, sente l’impellente necessità di fissare alcuni positivi di polaroid prima che svaniscano. Il risultato è quello di immagini misteriose che raccontano la storia di chi le ha scattate, ma anche del tempo che tutto corrode; fotografie percorse da giochi di luce ed ombre, così come da coincidenze che interferiscono nella pratica fotografica. Un senso di evanescenza pervade l’intera serie, in un racconto onirico, quasi surreale, ma allo stesso tempo reale nella misura in cui diviene riflesso del modo di sentire di una grande fotografa.
di Vittoria Ferrero