Claudio Piersanti, classe 1954, è uno dei più celebri scrittori italiani viventi. Trascorre gli anni universitari a Bologna partecipando con fervore al Movimento Bolognese del ’77 con altri nomi noti nel panorama della letteratura come Marco Lodoli, Enrico Palandri e Pier Vittorio Tondelli.
Esordisce nel 1981 con il suo primo romanzo, Casa di nessuno, in cui presenta già la sua firma: una scrittura dalla prosa essenziale che parla di storie di vita quotidiana. Oggi chiacchieriamo con l’autore della sua carriera e del nuovo romanzo che celebra i suoi quarant’anni di pratica della letteratura italiana: Quel maledetto Vronskij.
Nella tua carriera hai impiegato la scrittura per il cinema, la televisione, le sceneggiature. Credi che essa debba adattarsi in ogni ambito oppure il tuo modus operandi è rimasto sempre lo stesso? Cosa ti ha acceso di più durante questi anni?
Credo che siano due lavori completamente diversi: lo scrittore è simile a un montatore, forse allo stesso regista. Lo sceneggiatore è un’invenzione degli scrittori. Per me è stata un’esperienza importante, soprattutto lavorare con un grande amico come Carlo Mazzacurati. Ecco, lì ho avuto la sensazione di fare cinema. Tra la scrittura e il cinema c’è un grado di parentela innegabile, a me diverte, lo concepisco come un gioco.
Reputi ci sia un elemento della tua formazione, un periodo della tua vita, un nome che ti abbia ispirato a diventare quel che sei ora?
Quando ho cominciato a scrivere non conoscevo nessuno nel panorama, scrivevo storie di avventura di mare, non sapendo neanche nuotare. Certamente sono tanti gli incontri che ho fatto in questi anni, alcuni rimasti cartacei, ma c’è una persona in particolare di cui mi sento di fare il nome: Romano Di Venchi…un nonno, un amico. L’ho conosciuto negli ultimi dieci anni della sua vita. Lui era un po’ il lettore che immaginavo, quando scrivevo pensavo “chissà cosa mi dirà Romano”. Quando morì, per molti mesi non scrissi niente perché mi mancava averlo come lettore. Non aveva senso scrivere se non c’era lui a leggermi. L’ho conosciuto in un periodo della mia vita in cui ero già formato, avevo 30 anni, non 18.
Sei uno dei nomi noti del movimento bolognese del ‘77. Che clima si viveva nel mondo letterario di quel periodo? L’hai più ritrovato?
Era un fervore sorgivo, fino a quel momento non c’era mai stata una grande passione letteraria nell’aria. Io, insieme a Pier Vittorio Tondelli – che stava anche lui a Bologna – Marco Lodoli, Daniele del Giudice, Enrico Palandri, Daniele Forrè siamo stati i nomi che incominciavano il loro percorso letterario in quegli anni. Quelli che avevamo alle spalle erano nonni, più che padri.
La tua scrittura è estremamente essenziale, con una precisione lessicale che dà l’idea che ogni parola sia ponderata. Scrivere così richiede tempo di esecuzione oppure è diventato nel tempo il tuo linguaggio naturale?
La scrittura è un punto molto essenziale del processo, ma c’è una fase di attesa non tanto delle vicende – che io non riesco a immaginare – ma delle persone, dei personaggi. Per noi scrittori sono delle persone viventi: c’è un’attesa e poi arriva l’apparizione. Io li sogno e questo è un ottimo segno perché significa che posso iniziare a scrivere di loro. I miei personaggi si portano dietro tutto di loro, soprattutto la loro lingua – dai miei libri sono usciti avvocati di alto livello, coltissimi, dal linguaggio aulico, come delle contabili di periferia di Bologna di tutt’altro profilo. Negli anni ho ricoperto uno spettro umano vastissimo, e ognuno si portava dietro un mondo psicologico, edonistico, caratteriale, e a questo dovevo attenermi. Non ho mai parlato io al posto loro.
Quel maledetto Vronskij celebra i tuoi quarant’anni di pratica della letteratura italiana con la storia di due individui che costruiscono il loro amore. L’elemento che più mi ha colpito è che il racconto è filtrato esattamente attraverso i loro occhi; è crudo, puro, diretto. Per far parlare due personaggi in modo così autentico bisogna essere in grado di vestirne i panni e vivere con loro un pezzo di vita. Come pensi di riuscirci?
Contraddico il tasso di narcisismo obbligatorio che ci deve essere in questo mondo: io non appaio mai, soltanto a grande profondità, ma mai la mia vita o i suoi aspetti esteriori. È come se mi facessi tramite tra i miei personaggi, che sono vivi, e i lettori. Tra quello che loro vogliono dire e quello che gli altri vogliono ascoltare. Si tratta di un’attività mimetica, che è parte essenziale del mio lavoro perché da lì inizia il mio benessere. Anziché portare una frantumazione psicotica dell’io, io tendo a svanire. Amo molto vivere sempre vite diverse, un po’ come gli attori, con i quali ho sempre avuto un ottimo rapporto.
Perché per Giovanni, tra tutti gli antagonisti nella storia, hai scelto proprio l’amante di Anna Karenina, Vronskij?
Forse perché era proprio lo stereotipo dell’avversario in questo campo, qualcuno contro cui è difficile competere: un uomo giovane, ricco, bellissimo e con in mano a disposizione il bene più importante di tutti, il tempo. La potenza dei veri corteggiatori è avere un mucchio di tempo. Vronskij non fa assolutamente nulla, come tutti gli ufficiali del suo livello. È un uomo chiaramente temuto da tutti gli uomini normali, che si alzano ogni mattina per andare in ufficio.
Cosa volevi lasciare al lettore, una volta sfogliata l’ultima pagina di questo romanzo?
Quello che ha lasciato a me. Ogni libro lascia qualcosa, uno stato d’animo: a me ha lasciato una grande serenità, non ho mai avuto momenti di disagio. Forse mi sono commosso un paio di volte, la sensazione generale era positiva, e mi verrebbe da commentare i protagonisti come due vite ben spese. Mi sembra un bilancio soddisfacente.
Un ringraziamento speciale a Claudio Piersanti, congratulandoci per la sua grande carriera e augurandogli il meglio per tutti i suoi progetti futuri!
di Martina Tronconi