A più di sette giorni dall’invasione russa dell’Ucraina la situazione si fa sempre più tesa e difficile. Il 24 febbraio cominciava ufficialmente l’invasione dei territori ucraini da parte delle truppe russe, un avvenimento che nessuno si aspettava e che forse solo pochi immaginavano. La città ucraina di Mariupol è sotto assedio, stremata e senz’acqua, Kherson è ufficialmente caduta sotto il controllo delle forse russe e a Kiev si attende l’arrivo delle truppe nemiche.
Probabilmente la guerra in Ucraina non sta andando come Putin aveva pianificato. Le sue truppe non si aspettavano una resistenza militare e civile e questo ha decisamente rallentato l’avanzata russa. L’approccio inizialmente cauto delle truppe russe, infatti, si è presto trasformato in una serie di attacchi pesanti rendendo la situazione sempre più drammatica.
Pensavamo che la paura di questi ultimi anni stesse per passare, pensavamo che fosse finalmente arrivato il momento della rinascita, della ripresa, del riscatto, e invece adesso abbiamo ancora (più) paura, siamo ancora fragili, disorientati, disillusi. Cambiamento e incertezza sono il filo conduttore di questi ultimi anni, in cui niente assomiglia più a ciò che consideravamo normale.
La guerra fa paura ma la connessione globale di cui disponiamo oggi su più fronti rappresenta il pregio e al tempo stesso il difetto della modernità: questa interconnessione ci permette di sentire vicino ciò che, di fatto, non è letteralmente di fianco a noi. Come diceva Michael Foucault già cinquant’anni fa, “è moderno chi può domandarsi cosa fanno oggi cinesi e islandesi”, e noi che oggi ci chiediamo cosa fanno russi e ucraini, possiamo davvero definirci moderni? Abitiamo una modernità che sa tanto di arretratezza, di mancanza di comprensione, di comunicazioni sbagliate. Una modernità che non si merita di essere chiamata tale perché ricca di pregiudizi, soprusi, ingiustizie. Una modernità che continua a sollevare problemi più che proporre soluzioni, che preferisce mettere la polvere sotto il tappeto pur di garantire il nostro livello di benessere. Abbiamo imparato a coltivare l’egoismo, terrorizzati dall’idea di perdere i nostri privilegi di cittadini. Cosa ci restituisce, dunque, questa modernità? Crisi, inflazione, epidemie, malcontento, disoccupazione, guerra.
Ci piace immaginare la vita come un processo costante e continuo, che dall’esterno si muove verso l’interno. Succede qualcosa fuori di noi e, per contrappasso, qualcosa cambia anche dentro di noi. Si è parlato a lungo in letteratura del concetto secondo cui si associa il trauma collettivo al cambiamento, come se solo un forte shock abbia il potere di smuovere le corde che sono in noi facendo così rinsavire la società ingiusta ed egoriferita, per portare a galla comportamenti esemplari e virtuosi.
Nella nostra società, di shock ce ne sono stati parecchi, la paura ha lasciato il passo alla gioia della libertà, abbiamo fatto la lista dei buoni propositi da seguire finché il tempo, puntuale come sempre, è arrivato per ricordarci che non è cambiato proprio nulla.
Gli shock che abbiamo subito hanno lasciato il vuoto dentro di noi, ma il vuoto serve a ben poco se non viene sapientemente colmato. Ogni vuoto esiste solo se lo sappiamo attivare, leggere, consegnandogli un valore costruttivo per le nostre vite. Il vuoto è un potenziale pericoloso ma necessario se usato come spazio libero, aperto a nuove visioni, generoso, consapevole. Oggi questa guerra scava ancora di più nel vuoto che c’è in noi, nutrendo le nostre paure e le nostre fragilità in un senso di incertezza lungo e diffuso. Per questo l’unico vuoto che dobbiamo continuare a combattere è quello che crea una distanza abissale tra noi e l’altro, nell’attesa di rinascere, perché nascere non basta mai a nessuno.