Per una critica poetica
Parlare di Sorrentino oggi è un po’ come parlare di un mostro sacro. Dal magistrale successo raggiunto con La Grande Bellezza (2013), Sorrentino ha sigillato con il suo volto, il suo nome e il suo stile una poetica cinematografica che riesce a svelare più o meno spiccatamente le pieghe dell’esistenza umana. Il nuovo film di Paolo Sorrentino ci mette di fronte all’evoluzione del suo modo di fare cinema, portando in scena il ricordo, a volte grottesco e onirico, della sua giovinezza trascorsa a Napoli negli anni Ottanta. Sorrentino torna nella sua città natale per raccontare le sue origini, la sua famiglia, il lutto della tragedia vissuta, l’amore e la crescita.
In un film che vuole porsi come un racconto autobiografico, ma che sa essere molto altro, risulta difficile muovere un giudizio a riguardo, per l’impossibilità stessa di avere un giudizio nei confronti di una vita che non ci riguarda in prima persona. Così Sorrentino ci lascia nello stupore di un cinema che non si sforza di scegliere tra forma e sostanza, ma riesce nell’impresa di farle coesistere in simultanea, in uno slancio creativo che non si ferma di fronte a ciò che sembra chiedergli il pubblico, riuscendo ad annodare insieme il tragico e il comico, il paradossale, il grottesco e il profondo del reale. In questo senso, È stata la mano di Dio, è un film emotivo che impone diverse letture perché la molteplicità di livelli da cui è composto sfugge a un rigido etichettamento o ad un inquadramento riduzionista. Il cinema di Sorrentino sa essere al contempo intimo ed estroverso, soggettivo e collettivo.
Al centro e sullo sfondo del film c’è la città di Napoli, con la sua esplosività, la sua tradizione, i suoi colori e i suoi paesaggi inconfondibili. E c’è anche Maradona, figura mistica, quasi sacra per i napoletani, elemento chiave che utilizza il regista per mettere in scena la sua storia, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna.
«Maradona mi ha insegnato ciò che dico nel film, cioè che la perseveranza è la piattaforma necessaria per coltivare il talento, però lui nel mio immaginario è una figura religiosa. Non è facile apprendere dalle figure religiose, sono degli unicum, gli insegnamenti si prendono più da persone che pensi di poter imitare. Maradona non era imitabile, ecco».
(Paolo Sorrentino)
Un altro punto chiave del film è la famiglia e il rapporto del protagonista (Fabietto, interpretato da Filippo Scotti) con essa. La famiglia è il nucleo degli affetti. Rappresenta le radici che ci permettono dal basso di crescere verso l’altro. Così vengono narrate tutte quelle dinamiche familiari che ci marchiano inevitabilmente. Viene raccontato il rapporto con il fratello, con la zia (interpretata da Luisa Ranieri), con i genitori (Teresa Saponangelo e Toni Servillo) a cui il protagonista è legato da un affetto viscerale, troppo spesso dato per scontato.
Un’ulteriore chiave di volta è rappresentata dall’incontro che Fabietto ha con il regista Antonio Capuano, a seguito della tragica perdita dei suoi genitori. Il dialogo con lui è esemplificativo non solo di qualcosa che è stato importante nella vita di Sorrentino, in quanto uomo e regista, ma mette in luce anche il limite che la vita stessa ci impone ad un certo punto del nostro cammino. Proprio quando Fabietto è solo, spaesato e incapace di comprendere il senso delle ingiustizie che la vita gli ha riservato, il regista Antonio Capuano gli grida «non ti disunire!». Una frase semplice, ma che nasconde uno scrigno di letture. «Non ti disunire» è un invito ad affrontare la vita senza paura di aggredirla, attraversarla, ascoltarla e sfidarla; è un incoraggiamento, un monito da se stessi e per se stessi, per ricordarci di rimanere sempre fedeli a ciò che siamo, a dove veniamo, a chi vogliamo essere. È un modo per dirci di non abbandonare mai l’essenza che compone la nostra anima, di non cedere al dolore, alle avversità, a chi ci vuole diversi, a chi non ci capisce.
Tra scene intense e paradossali, inquadrature d’autore e tra le strade di una Napoli unica, È stata la mano di Dio è un film che nella sua delicata compostezza svela un Sorrentino diverso, attento a puntare i riflettori sull’interno più che sull’esterno, per uno sguardo interiore e introverso facendo luce sulle sue zone d’ombra e mettendo in scena una realtà che interroga la vita, e ne cerca la verità.
«Chissà se, nell’aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film. La lettera che sosta tutti i giorni nell’anima dei figli diventati grandi. Dove scriviamo, col pensiero e con le parole che non abbiamo detto, quella meraviglia che è stata o non è stata, ma che sempre rimarrà nella nostra vita sentimentale, l’idea di meraviglioso».
(Paolo Sorrentino)