Il nuovo film di Noah Baumbach apre il Festival del Cinema di Venezia
Dopo il vivace e coinvolgente “A Marriage Story”, Noah Baumbach torna ad aprire la Mostra di Venezia, deciso ancora una volta a sorprenderci. Questa volta non troviamo la stessa sorprendente dinamicità e intensità, ma qualcosa di ugualmente interessante per come sperimenta la propria poetica, aggiungendo sfumature di genere e sbilanciandosi dalla propria “comfort zone” espressiva.
Più che una vera e propria uscita dal genere drama-comedy tenta una virata del punto di vista: meno dialoghi (seppur rimangano numerosi), più silenzi evocativi, immagini e musiche (si direbbe più cinema). La componente quasi sci-fi e/thriller in fondo servirà a questo, a dare un tono maggiormente allegorico-visivo all’opera. Ma è davvero un diverso Baumbach?
Le paure interiori secondo “White Noise”
I personaggi sono sempre gli stessi, così come la natura delle loro relazioni. Baumbach conferma la propria capacità di mostrare l’insicurezza come motore dei sentimenti , laddove certe retoriche vorrebbero farci credere diversamente. Ecco il coraggio, a volte disarmante, dello scrittore-regista americano: mostrare la quotidianità dei sentimenti. È anche il motivo per cui a volte può risultare fastidioso, dato che al cinema si va anche per “evadere” da quelle insicurezze e vuoti della quotidianità.
Cosa cambia allora davvero in “White Noise” rispetto agli altri film? In fondo assistiamo sempre a dramma interiori e familiari, e a personaggi in grado di comunicare con ogni sfumatura dei propri gesti, movimenti, espressioni…
L’angoscia tra ombre e colori
Forse questa volta Baumbach vuole porci di più l’accento sull’introspezione. Le riflessioni in monologo, le premonizioni, i sogni…
In ogni suo film abbiamo avuto la percezione che tra pensiero e azione non ci fosse molta differenza, i personaggi si muovevano nel “dramma” sentendolo tutto dall’inizio alla fine, attraverso le loro paure e speranze contribuivano a determinare i fatti da loro stessi subiti. In “White Noise” viene solo reso più esplicito dalle premonizioni. Ed è più esplicita anche la propria autorialità: i mille colori del supermercato alla fine del film e lo stesso titolo sembrano la metafora perfetta per il cinema di Noam. La ricchezza dei colori e la molteplicità di ciò che ci sta attorno hanno in realtà la chiarezza e la semplicità del bianco.
Forse il ridotto spazio lasciato agli attori fa perdere al film un po’ d’intensità rispetto ai precedenti, ma è in grado di emozionare in maniera mai banale e noi di Gilt ve lo assicuriamo, non vi deluderà.