Un documentario che fa discutere
Ali Tabrizi ha 27 anni ed è un filmmaker. Insieme alla sua fidanzata, Lucy Tabrizi, è diventato una star del mondo dei documentati dopo la distribuzione di Seaspiracy da parte del colosso Netflix. Un documentario pesante, duro, a tratti estremamente angosciante, ma anche controverso e foriero di polemiche.
Prodotto da Kip Andersen, celebre co-regista di Cowspiracy e What the Health, il documentario di Tabrizi vuole rivelare la verità nascosta dietro etichette quali “pesca sostenibile”, “dolphins safe”, e dietro il mondo della pesca commerciale, grazie alla quale finiscono su nostri piatti prelibatezze come tonno, pesce spada, gamberi e salmone. Ma a che prezzo? Quali sono le conseguenze per l’ecosistema marino, a fronte di una domanda di prodotti ittici sempre crescente? Le risposte che dà Seaspiracy sono un pugno nello stomaco, ma allo stesso tempo hanno sollevato un vespaio di polemiche e numerosi dubbi sulle cifre riportate dal documentario.
Le riprese
Le prime riprese di quello che successivamente sarebbe diventato Seaspiracy, Tabrizi le ha girate cinque anni fa, “tra un lavoretto e l’altro”, come ha raccontato in numerose interviste. Le riprese provengono dai quattro angoli del pianeta, e raccontano di un mondo in cui la crudeltà e il profitto sembrano essere gli unici valori ammessi e degni di rispetto. C’è il Giappone, in cui per sei mesi l’anno i delfini vengono massacrati nella baia di Taiji, da pescatori che li considerano concorrenti sleali (il documentario The Cove racconta in dettaglio anche dei delfini strappati ai branchi e rinchiusi nei parchi acquatici).
Ci sono le isole Fær Øer, celebri tanto per la loro selvaggia bellezza quanto per la mattanza delle balene, a cui partecipano anche i bambini. Grindadráp, la parola faroese che identifica la caccia alle balene, evoca scenari spaventosi di acque rosse del sangue di questi magnifici animali ed è un passaggio che lascia fortemente scossi. Ma, come si chiedono i pescatori di quell’inospitale arcipelago: “È peggio mangiare la carne di una balena pilota o di un pollo cresciuto in una gabbia microscopica all’interno di allevamenti in cui non viene mai spenta la luce?”. A noi consumatori l’ardua sentenza. E rispondere non è per niente facile.
Tra dure realtà e nette prese di posizione
Ma Seaspiracy non vuole raccontarci solo delle mattanze di cetacei nel mondo. Ci costringe a confrontarci con il numero, assurdamente alto, di squali che vengono uccisi per le loro pinne, di tartarughe che fanno le spese della pesca a strascico – vietata, formalmente – ma troppo spesso utilizzata in giro per il mondo. Tra le scene più inquietanti del documentario, merita una menzione l’intervista effettuata ai pescatori di gamberetti della Thailandia.
Schiavi contemporanei, costretti a turni massacranti e impossibilitati a rivelare la loro identità. Tra una testimonianza di membri di Sea Shepherd e un’immagine di pescherecci, il documentario di Ali Tabrizi ha spinto molti a chiedersi: “è sostenibile quello che mangio? Acquisto pesce allevato in maniera sostenibile e consapevole?”. Ma, allo stesso tempo, ha fatto infuriare le associazioni del settore ittico, che non hanno mancato di bollarlo come “propaganda vegana” e capace di fare solo disinformazione sulla pesca commerciale e sull’allevamento.
Non sono mancate nemmeno prese di posizione nette anche dalla comunità scientifica, che ha accusato Tabrizi e Andersen di aver forzato numeri a supporto della loro tesi, andando a ripescare studi sconfessati dagli stessi autori. In particolare, molti hanno accusato i due di aver ripreso uno studio del 2006 di Boris Worm, ecologista e docente di biologia della conservazione marina alla Dalhousie University (Canada), in cui si sosteneva che entro il 2048 gli oceani sarebbero stati quasi vuoti, mantenendo la pesca a questi ritmi. Lo studio è stato smentito dallo stesso Worm nel 2007, a seguito di ulteriori approfondimenti. La battaglia tra Tabrizi e Andersen e chi, invece, sostiene che non tutto il mondo della pesca sia una cospirazione in mano a lobbies pronte a tutto, continua.
E noi, siamo disposti a ripensare la nostra alimentazione ponendo la giusta attenzione alla provenienza degli alimenti e lottando perché vengano rispettati gli standard di sostenibilità e attenzione all’ecosistema?
di Martina Porzio