Avete mai immaginato la terra dopo la scomparsa dell’uomo? L’artista Carlo Ravaioli l’ha rappresentata por noi nei suoi scorci di “città future”. E allora ecco un dispiegarsi di paesaggi e interni dove la figura umana è totalmente assente, così come quella di qualsiasi altro essere animato, e quello che resta sono soltanto le cose, immobili, e si può percepire il silenzio che avvolge le strutture e la solitudine che da loro traspare.
Guardando le sue tele è forte il richiamo al passato, a qualcosa di arcaico, ed è forte altresì la tensione per il futuro, come se qualcosa in quel luogo deserto fosse appena accaduto e qualcos’altro possa accadere da un momento all’altro.
La materia pittorica densa e compatta delinea nettamente i volumi, questo assieme ai colori sabbiosi e alla vasta tonalità di grigi sempre opachi contribuisce a donare un’aurea inquietante alle composizioni. Noi Carlo Ravaioli l’abbiamo incontrato e da lui abbiamo colto il senso vero di queste città del futuro.
Le chiedo innanzitutto una breve biografia?
Ho iniziato a dipingere fin da piccolo, è una passione che ho sempre coltivato, e che ho approfondito però da una trentina d’anni a questa parte. Sono nato in Romagna, a Ravenna e ho uno studio a Forlì dove dipingo quasi a tempo pieno. Mostre non riesco adesso a elencarle però un po’ in tutta Italia e qualcosa anche all’estero.
Qual è il messaggio che vuoi far passare attraverso le tue opere?
Io praticamente in questo momento ho due cicli che porto avanti, un ciclo sul paesaggio e uno sui ritratti, che chiamo nuovo ciclo perché le figure umane fino ad una decina di anni fa erano trattate in maniera completamente diversa: erano figure stilizzate molto interpretate, ora invece son tornato alla scuola mia di origine di disegno anatomico per ottenere un effetto molto più realistico della figura. I paesaggi invece sono situazioni raccolte un po’ dalla memoria, sono nato e vissuto nella campagna romagnola e quindi ci sono rimandi spesso all’infanzia, però fondamentalmente la mia pittura è una pittura di racconto, non è una pittura di istantanea, in cui si cerca di cogliere l’attimo ma cerca invece di raccontare un momento dilatato nel tempo.
C’è un richiamo al mitologico, ad eventi storici nei suoi quadri?
In questo caso l’arca è un altro soggetto molto ricorrente, è un’arca che ha una levitazione, faccio anche di questo tipo di navi con delle vele molto pronunciate. in realtà sono arche di Noè che non trasportano gli animali e le specie ma intere popolazioni che vogliono salvarsi dal mondo.
Come mai non compare mai la figura umana?
Perché le mie sono prefigurazioni di un futuro molto lontano, quindi l’immaginazione corre a quello che può essere un mondo tra mille anni. Però lascio sempre qualche traccia di un trasloco recente, come ad esempio dei fogli, e degli scritti appena gettati sul pavimento. Il trasloco dell’umanità viene fatto gradualmente, anche proprio con un’allegoria fantascientifica su un’arca-astronave che porta da un’altra parte, addirittura su un altro pianeta.
Quindi quello che rimane sono veramente pochissime cose, pochi scritti e città in qualche modo fantasma. Qui quindi non c’è la rappresentazione di un mondo dopo una bomba, distrutto da qualche catastrofe, ma di un mondo abbandonato in maniera abbastanza veloce perché rimane ancora quasi tutto intatto.
E dove è diretta la popolazione?
Questo non lo immagino perché è forse la parte più pessimistica della mia visione.
Come nasce l’idea di queste rappresentazioni?
Innanzitutto la prima parte della mia pittura era sulla figura, la figura stilizzata come ho detto prima, molto interpretata per riuscire a ottenere una connotazione stilistica riconoscibile, poi pian piano ho iniziato a fare dei paesaggi soltanto come esercizio di stile rappresentativo più che di contenuto.
Io vado a pescare nella mia memoria, e quindi sono tutti paesaggi inventati, ciò non toglie che ho avuto un periodo in cui facevo molta più fotografia di paesaggio, e chiaramente attraverso la fotografia di paesaggio devi prendere quello che trovi, spesso non trovi quello che tu vorresti quindi ho poi deciso di dipingere quelle situazioni che avrei voluto fotografare e invece non ho mai trovato.
C’è qualche artista che ti ha ispirato nella realizzazione delle tue opere?
Non tanto adesso ma all’inizio per quel che riguarda il paesaggio alcuni autori del ‘900 italiano, come ad esempio Carrà, la scuola romana, per cui c’erano questi casi molto semplificati con questi paesaggi molto essenziali. Poi invece ho lavorato di più sul deserto dietro alle case, per dare questo senso di desolazione e nello stesso tempo di vita, perché non è detto che nell’altra facciata della casa non vi sia una situazione gioiosa. Perché il riferimento principale era quello di prediligere il dietro casa, che nelle case di campagna erano un po’ dei ripostigli, come delle soffitte, per cui se tu ti ponevi dietro casa in realtà dall’altra parte c’era lo svolgimento della vita, quindi è un po’ come andare a cercare un angolino solitario nel quale poi rifugiarsi.
Vedo che nelle tue opere è molto presente l’idea del recinto, del delimitare gli ambienti. Cosa vuoi raffigurare con questo?
Sul recinto ho proprio fatto un ciclo di rappresentazioni, era nata come idea di recinto che doveva contenere delle cose paradossali, come ad esempio nella mia opera: “Recinto del sole al tramonto”, dove viene raffigurata una casa che ha la luce al tramonto solo ed esclusivamente nel suo recinto, il resto ha una luce completamente diversa, infatti anche le ombre sono contrarie.
Oppure ho realizzato il recinto del vento dove gli alberi si muovevano solo all’interno di quei confini e non fuori oppure ho voluto rappresentare il paradosso della libertà raffigurando un cane sciolto dal guinzaglio però dentro a delle mura per cui questa sua libertà è in realtà fittizia perché comunque era imprigionato da queste mura.
Il recinto d’altro canto può essere visto da due parti: o come elemento di protezione dentro cui tu puoi trovare un tuo rifugio o può anche essere visto come qualcosa che t’imprigiona e nello stesso tempo ti da anche l’idea del confine, del limite del tuo mondo. Come credeva il pensiero tolemaico, ovvero che il mondo finisse dove arrivava la nostra conoscenza, così nelle mie opere il recinto è proprio il campo della nostra conoscenza.
C’è un’opera a cui sei particolarmente legato e dalla quale non vorresti mai separarti?
Le opere dalle quali non voglio separarmi sono quelle che mi porto a casa, soprattutto quelle che segnano degli episodi molto importanti, quindi l’evoluzione dei miei dipinti, ovvero un po’ di tutti gli argomenti, un po’ di tutti i generi e gli stili. Un quadro nasce, ed è proprio come un bambino non sai come sarà quando diventa grande, perché al di là del fatto che qualcuno possa avere già un progetto a monte però nel corso d’opera un quadro può avere dei cambi di direzione.
Anche il decidere che il quadro è finito è un momento che anche dipende da come ti senti in quel momento, perché si potrebbe anche continuare, quindi solo dopo anni ti accorgi se un quadro ti appartiene così tanto da non volerlo assolutamente darlo via.
Ti lascio con un’ultima domanda, che cos’è secondo te l’arte?
L’arte per me è qualcosa di soggettivo, perché secondo me è il gusto e il divertimento di operare che deve essere fine a se stesso, non deve essere per gli altri. Deve partire proprio come un atto d’amore. E spesso quando tu operi ti accorgi di essere un tutt’uno con quello che stai facendo.
Grazie mille.
Grazie a te.
di (Stefania Bleve)