Destreggiandosi fra cinema e televisione, spaziando dai film impegnati alle commedie, la giovane Stella Egitto sta ponendo solide basi per una carriera che si prospetta molto fiorente. Dopo un’ottima formazione in ambito teatrale, ad oggi l’attrice messinese vanta una serie di collaborazioni cinematografiche, da “Ti stimo fratello” (2012) di Giovanni Vernia a“In guerra per amore” (2016) di Pif, che l’hanno resa subito molto amata dal pubblico italiano. Una chiacchierata con lei ci ha permesso di scoprire qualcosa in più sui progetti che l’hanno vista impegnata recentemente.
Cara Stella, la tua formazione artistica e professionale parte con il teatro all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma. Come ricordi quei primi anni e cosa ti hanno lasciato di prezioso per le produzioni a venire?
Studiare in Accademia ha cambiato la mia vita: a 18 anni non ancora compiuti, ha comportato il mio trasferimento dalla Sicilia a Roma, e mi ha concesso per tre anni la possibilità di dedicarmi completamente a ciò che amavo. È stato un momento fondamentale, che ha fatto scaturire tantissime cose e che mi ha lasciato una formazione intensissima. Quelli in cui ho studiato all’Accademia Nazionale sono stati anni particolari e di grandi cambiamenti per me, ma anche per l’Accademia stessa: avevamo ancora papà Ronconi ed altri grandi nomi come Anna Marchesi, degli insegnanti forti ed una buona struttura laboratoriale dagli stimoli differenti. Sono uscita da lì piena di domande, ho cominciato una fase di vita consapevole, ed è stato proprio questo che mi ha insegnato come relazionarmi con tutto quello che ci sarebbe stato dopo.
Sarai protagonista assoluta del film “Malarazza” (nelle sale a partire da giovedì 9 novembre) di Giovanni Virgilio, film impegnato che tratta argomenti importanti, tra cui quello dei soprusi contro le categorie deboli come le donne e i transessuali. Cosa è emerso nello studio e nella preparazione di questo film, e in che modo sei stata arricchita da un’esperienza simile?
Questo film ha un focus particolare sui quartieri periferici, in particolare entriamo dentro Catania, soffermandoci sulla realtà di Librino, quartiere di periferia industriale, e di San Berillo, quartiere cosiddetto “trans”. Minimo comune denominatore, è l’abbandono. Ciò che noi raccontiamo è la storia di una famiglia che si contestualizza all’interno di queste dinamiche: il mio personaggio, Rosaria, è una donna con l’acqua alla gola, che subisce ripetuti episodi di violenze domestiche ma che prova ad alzare la testa per l’istinto di protezione nei confronti del figlio. Per farlo andrà a chiedere asilo al fratello (nel film Paolo Briguglia), un transessuale che vive nel quartiere di San Berillo, e questo apre un’altra macrosequenza all’interno della storia. Mi sono preparata intensamente per questo film, ho voluto toccare con mano tutto ciò che di lì a poco stavamo per raccontare. Innanzitutto sono andata a Catania, città che non conoscevo, per esplorarla da vicino e trascorrere del tempo a Librino e San Berillo. È stata anche occasione per conoscere donne che hanno vissuto le stesse esperienze di Rosaria nel film, e per lasciarsi attraversare da tutta questa violenza, poiché raccontiamo delle verità assolute sulla realtà di quei quartieri, nulla è stato romanzato. Abbiamo cercato di creare un film crudo, perché cruda è quella realtà.
Nel film, Tommasino Malarazza, marito di Rosaria, è un boss catanese decaduto. Un tema, quello del fenomeno della criminalità organizzata, frequentemente affrontato nel cinema e nelle serie (si pensi a “Gomorra” o “Suburra”). Questi prodotti però, soprattutto negli ultimi tempi, piuttosto che essere considerati una giusta sensibilizzazione, sono stati tacciati di incitamento all’imitazione dei comportamenti o condannati per lo sfoggio di violenza gratuita. Come ti esprimi a riguardo?
Nel nostro film, la crudezza di cui ti ho appena parlato ha comunque voluto mantenere un certo garbo da questo punto di vista. Si tratta di un progetto diverso che, pur rientrando in quel macro-filone di periferie, potere e dinamiche mafiose, si differenzia per il modo in cui lo racconta. Rappresentare storie di questo tipo è sempre un’operazione delicata e molto sottile, ma nel nostro caso non c’è alcun compiacimento per quello che va in scena. Credo che ciascuno rimanga comunque libero di attribuirne il suo personale significato; ad ogni modo, per me un prodotto del genere non ha niente a che vedere con un incitamento o una mitizzazione di nessuna delle figure o delle situazioni che vengono raccontate, non è questo l’obiettivo.
Parliamo di un altro film che ti ha vista impegnata recentemente, “Tu mi nascondi qualcosa”. Come ti sei trovata sotto la direzione del collega Giuseppe Loconsole, alle prese con la sua prima regia? Per lui, come per tanti altri attori, la regia sembra il naturale esito di una lunga carriera come attore. Aspiri anche tu un giorno a dirigere un film?
Uscita dall’esperienza di cui abbiamo parlato prima, mi sono letteralmente tuffata in una commedia dove interpreto un’attrice porno, un ruolo allo stesso tempo particolare e delicatissimo, che Beppe (Giuseppe Loconsole ndr.), collega conosciuto sul set, ha deciso di affidarmi. Raccontiamo una storia in cui questo personaggio sdogana un po’ il cliché dell’attrice porno che, nonostante il mestiere che fa, può comunque avere una vita soddisfatta, piena d’amore e fedeltà. È stato molto divertente lavorare a questo ruolo, anche grazie ad un ottimo compagno di battaglia che è Alessandro Tiberi e tutto il resto del cast, fatto di nomi forti e personaggi pazzeschi. Secondo me Beppe ha fatto veramente un buon lavoro, e sono molto curiosa di vederlo; sarà sicuramente un prodotto particolare ed insolito. Per quanto riguarda le velleità alla regia, devo dire che sinceramente non ci ho mai pensato. Per me la regia è la forma degli occhi con cui guardi una realtà che devi raccontare; diciamo che, finora, non ho ancora sentito alcuna urgenza di raccontare una storia nello specifico. Voglio continuare a impegnarmi nel mio campo e nel mio mondo, che si basa sulle esperienze; e ho ancora molto da imparare.
Oltre a questi ultimi film, ti rivedremo presto anche sugli schermi televisivi?
A brevissimo, con l’anno nuovo, mi vedrete ne “Il commissario Montalbano”, il mio episodio si chiamerà Amore, e in esso ho un ruolo bellissimo, in cui ho cercato di non risparmiarmi. Recitare in questa serie è stata un’esperienza stupenda, da sempre una delle cose che più desideravo. Sarò inoltre presente in un episodio di “Non uccidermi”, con un ruolo proprio tostissimo! Posso dire di aver avuto la fortuna di lavorare in due fra i progetti televisivi forse più belli che la televisione per ora annovera.
A questo proposito, sono molte le serie tv che hai girato, tra cui la terza stagione di “Squadra Antimafia” e “Questo nostro amore”. Perché secondo te, nell’era di internet, ha ancora valore impegnarsi in progetti televisivi, pur sapendo che una grossa porzione di pubblico – circa 700mila spettatori, sicuramente fra i più giovani – preferisce guardare le serie distribuite in streaming online?
Noi ci auguriamo che la televisione prenda esempio dalla bellezza che ci stanno regalando queste nuove piattaforme e, personalmente, ritengo che le due possano benissimo coesistere ed essere guardate con lo stesso piacere, anche dai giovani. Forse la nostra televisione ha solo la necessità di riuscire a fare un salto per stare al passo con queste realtà. Per esempio, secondo me “Non uccidere” è proprio un tentativo di equiparare, con un linguaggio piuttosto cinematografico, la serialità televisiva a queste nuove piattaforme e, se è così, ben venga!
La Redazione ringrazia Stella Egitto per la sua gentilezza e simpatia!
di Gaia Lamperti