Michele Bravi torna con “La geografia del buio”, la storia di come ha imparato a convivere con il dolore
29 gennaio 2021, Michele Bravi esordisce con il suo nuovo album dopo 4 anni dal disco d’oro “Anime di carta”. Questo ritorno non porta con sé appena l’uscita di un nuovo album, ma la forza di condividere un nuovo progetto musicale profondamente diverso da tutta la produzione precedente. Michele descrive “La geografia del buio” come un piccolo miracolo nato dalla solitudine più grande mai provata, da una riflessione sul dolore che è pronto a condividere.
Raccontaci di come è nato il disco
Due anni fa, quando la mia voce aveva ricominciato a parlare e a vedere cosa succedeva fuori dai miei occhi, incontro Andrea Bagliani, per me uno dei più grandi scrittori mai esistiti. Andrea ha rivoluzionato tutto per me quando mi ha detto: “Michele, la musica non salva da niente. Però, aiuta a disegnare il labirinto”. Dunque, questo disco per me è un processo, una storia che dice come si convive con il buio. Un concept album che attraversa il buio e combatte la falsa credenza che il dolore bisogna nasconderlo in uno scatolone. Il dolore non va nascosto, ma va mostrato in mezzo alla stanza. Il dolore è un fatto. Il buio è un fatto, una casa senza luce. Ma comunque una casa. Io in quella casa ho imparato a viverci. E con queste 10 canzoni che parlano della geografia del buio, parlo di dolore; ma è il disco d’amore più grande che abbia mai scritto. Voglio che sia una forza propulsiva per far affrontare agli altri il dolore.
Perché lo definisci un concept album?
L’obiettivo del disco era essere narrativo. Il suono doveva essere di un piano particolare e imperfetto, doveva avere una storia. È stato difficile trovare pianoforti verticali, ma alla fine ne abbiamo scelto uno di inizio ‘900. Andrea Manzoni, il mio pianista, ha cancellato tutto quello che sapeva per entrare in funzione di quei brani e del piano. Per quanto riguarda la mia voce, l’approccio alla registrazione è stato malinconicamente casalingo: tutto è stato registrato e arrangiato nel salotto di casa di Francesco Katoo Catitti. Se si ascolta bene, si avvertono il suono del clacson, del frigorifero, delle voci in sottofondo. Il silenzio non è mai completo, è sempre riempito. Ho avuto il coraggio di inserire momenti vuoti, che ognuno può riempire con la sua storia. Il disco è stato un lavoro di scultura: prendere un blocco di suono e sottrarre. Riempire il silenzio con la storia di tutte le persone coinvolte nel processo di lavorazione.
Quali sono le canzoni più significative dell’album?
Nel primo capitolo, con “La vita è breve dei coriandoli” ho voluto raccontare un inno alla felicità e come nelle piccole immagini si nascondano grandi significati. In “storia del mio corpo” racconto l’unico luogo dove non potevo evitare di sentire la mia storia: il mio corpo. Con la terapia ho dato una casa a quel dolore, e questo mi ha offerto la possibilità di realizzare le parole di Andrea, dando un disegno a quel labirinto che avevo percorso. C’è un brano, l’ultimo che chiude “7 passi di distanza”, che ho scritto dopo aver ascoltato un vocale, in un momento in cui la mia voce non riusciva a parlare. È una canzone fatta esclusivamente dal piano e dal mio respiro. Ho deciso di suonare perché il momento era così inesatto che solo io potevo realizzarlo, Andrea sarebbe stato troppo preciso. Il titolo di questa canzone è ispirato ad una frase di Gabriel García Marquez nel romanzo “L’amore ai tempi del colera”: “ Non erano più a 7 passi di distanza. Erano in due giorni diversi”. Ecco, vorrei che questa canzone mi aiutasse a ritrovarmi a soli pochi passi di distanza dalla persona per la quale l’ho scritta.
Quanto è stata terapeutica la scrittura per uscire dal buio?
Il dolore è una malattia che bisogna affrontare con cinismo. Non è stata la musica a salvarmi. La musica è servita a decifrare il mio dolore.
Come vivi la pandemia?
Stiamo tutti vivendo un momento complesso. C’è un problema enorme, ed è il nostro modo di vivere il mondo. Questo album voglio che sia un faro per orientarsi e capire che il male va affrontato. Nella prima traccia dico ciò che è scritto in un bigliettino che ho trovato e conservato: “Non parlare mai del futuro, perché è una cosa pericolosa”. Concentriamoci dunque tutti sul presente, cercando di trarre il meglio da quello che ci può riservare.
Quali sono due canzoni del repertorio italiano che esprimono il concetto di dolore e amore?
“C’è tempo” di Ivano Fossati è una delle canzoni d’amore più belle mai scritte. Mi distrugge ogni volta che la ascolto. Parla della pazienza di affrontare un discorso, dell’abilità di aspettare, è un invito a correre. “La costruzione di un amore”, sempre di Fossati, parla della dirompenza di una storia d’amore che “spezza le vene delle mani”. Parla di come l’amore stravolga la vita.
Un grazie speciale a Michele Bravi, augurandogli il meglio per tutti i suoi progetti futuri.
di Martina Tronconi