La sua carica esplosiva invade in lungo e largo gli spazi in cui i più svariati materiali prendono vita in un gioco di forme e stili che s’incrociano. Sfatano la più ardua, purché realizzabile, immaginazione, generano suggestioni spesso in contrasto fra loro. Sono i progetti di Fabio Novembre, architetto e designer, sognatore, provocatore, anti-minimalista e, soprattutto, powerful. Famoso in tutto il mondo per uno stile in cui la cultura dei progetti si mescola al piacere della vita, per gli occhi di David Bowie dello showroom di Bisazza di Berlino, che dall’esterno attirano i visitatori verso l’interno, per i locali alla moda di Milano, per gli interni dei negozi Blumarine e di Stuart Weitzman, per le sue origini leccesi, per il suo essere misterioso e inafferrabile.
Com’è nato l’amore per l’architettura?
Sono laureato in architettura, ma con un equilibrio tra le materie scientifiche e quelle umanistiche che mi ha permesso di usare il costruito per il suo potenziale narrativo. Io credo che qualsiasi essere umano senta prima di tutto il bisogno di comunicare
e che il medium adottato debba rimanere in secondo piano rispetto al messaggio che si vuole veicolare.
A quali temi della storia, dell’arte e della cultura in generale si ispira?
Newton nel 1676 scrisse: “Se ho visto oltre rispetto ad altri, è perché mi ero arrampicato sulle spalle di giganti”. Io mi sento un po’ come lui, e mi godo il panorama su eroi che vanno da Fellini a Gandhi, da Majakovskji a Che Guevara, da Sottsass alla mia ex portinaia Cristina Caputo (altrettanto vecchia e saggia quanto Ettore). Io leggo la vita come una corsa a staffetta in cui devi essere pronto a percorrere il tuo tratto afferrando il testimone dalla generazione precedente ed affidandolo alla successiva, cercando di performare secondo le tue possibilità. E quando tutto sembra difficile faccio diventare i miei eroi le stelle che mi illuminano la strada, e tutto torna facile o quantomeno sopportabile.
A quale target si rivolgono i suoi lavori?
Mi riesce difficile parlare di target, di mercato. Credo che la gente mi chieda un punto di vista, da un designer ci si aspetta uno statement. Non ho mai lavorato su brief. Il designer interpreta spesso un ruolo maieutico rispetto ai bisogni del committente, ma se il cliente sapesse bene cosa vuole non avrebbe bisogno di rivolgersi a un professionista. Trovo assurde le ricerche di mercato fatte sulla gente, non saremmo mai arrivati neppure alla ruota se ci fossimo basati sui meccanismi di domanda-offerta. Le intuizioni sono la base di qualsiasi innovazione, il desiderio si forma su di esse. Il design, per quanto mi riguarda, è fatto delle intuizioni di grandi sognatori.
La sua esperienza a New York, quanto è stata formativa e quanto l’ha cambiato?
Sono convinto che New York, rappresenti ancora oggi l’ombelico del mondo. È un porto franco di culture, credi e razze che si intrecciano su uno sfondo di assoluta libertà. L’esperienza di vita newyorkese è formativa per chiunque, e nello specifico, a me ha portato la fortuna di trovare, quasi senza cercarlo, il mio primo incarico lavorativo. Potrei dire che Milano è stata l’officina in cui mi sono costruito, ma New York è stata certamente la pista di decollo da cui ho preso il volo.
Cosa ci dice della collaborazione per gli interni di Blumarine a Hong Kong?
La mia fortuna newyorkese è stata appunto quella di incontrare Anna Molinari. Al tempo vivevo in lower east side e frequentavo amicizie assolutamente trasversali e stimolanti, dal regista Jim Jarmusch alla gallerista Holly Solomon (per la quale lavoravo come tuttofare). Anna non poteva certo giudicarmi dall’esperienza, dato che non avevo mai fatto pratica in uno studio di architettura, ma il potenziale creativo era respirabile già dall’environment che mi ero creato. Fu così che con una buona dose di incoscienza, sua e mia, fui incaricato di disegnare il primo negozio Blumarine a Hong Kong. Il resto è noto…
Che differenza c’è tra essere architetto ed essere designer?
“Dal cucchiaio alla città” è uno slogan coniato da Ernesto Nathan Rogers nel 1952. Si può dire che questa definizione ha caratterizzato la cultura italiana del progetto dal dopoguerra fino ai nostri giorni. I progettisti italiani fino alla mia generazione si sono formati nelle università di architettura, ed hanno affrontato il design con gli stessi strumenti critici e tecnici. Io ho sempre usato una metafora filmica per comparare design e architettura: gli oggetti sono cortometraggi e gli edifici veri e propri film. La differenza è essenzialmente nel budget, perché poi è richiesto lo stesso livello di abilità. Ma tutto il processo è incentrato sul raccontare storie attraverso lo spazio, con un plus tridimensionale che nessun’altra disciplina permette.
La sua origine pugliese l’ha influenzata in qualche modo nei suoi lavori?
Io sono nato a Lecce, una città con un’estetica fortemente barocca. Puoi non capire i tempi e i modi, ma poi il passato te lo ritrovi inconsciamente addosso, ti accorgi che per quanto la tua vita vada in direzioni diverse, quel punto di partenza è sempre dentro di te e viene fuori quando meno te lo aspetti.
Come si definisce?
Mi chiamo Fabio Novembre, anzi gli altri mi chiamano Fabio Novembre, e di solito sono nudo perché mi piace farmi cucire addosso definizioni che metto o dismetto a seconda delle occasioni. Haute couture del peggior gossip e della miglior cultura. E ti dirò che io, scultoreamente adamitico, me ne frego e lascio fare: esercizi di stile per stilisti e sartine. Diciamo pure che bado allo stile con cui indosso tutte queste definizioni, da impeccabile peccatore, facendo del gossip metafisico un manifesto culturale.
Progetti per il futuro?
Io sono un progettista che cerca di testimoniare il proprio tempo, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. E credo che la non casuale coincidenza etimologica tra il presente come tempo e il presente come regalo sia una condizione di partenza per qualsiasi ricerca progettuale.
(di Paola Vaira)