Massimo Bottura si racconta dagli esordi allo sviluppo di una carriera che lo ha portato a rivoluzionare il mondo della cucina senza mai dimenticare la sua amata terra, Modena.
Innovazione non è voltare le spalle alla tradizione. Massimo Bottura, uno dei nomi più altisonanti nel panorama dell’industria gastronomica, nasce a Modena, dove apprende le fondamenta della cucina emiliana. Il desiderio di perfezionarsi come chef lo porta a studiare la cucina francese e, successivamente, a continuare la propria formazione a New York. Negli anni 2000 aggiunge un ultimo importante tassello alla sua preziosa formazione: lo studio delle tecniche di cucina molecolare. Appassionato di arte, affamato di conoscenza, negli anni rileva 5 ristoranti ai quali destina progetti e ambizioni diversificate. Il vero successo arriva con Osteria Francescana, che si guadagna la reputazione di “miglior ristorante di tutto il continente europeo” dal Daily Mail e 3 stelle Michelin. Il segreto del suo successo mondiale? Concepire il cibo come un gesto d’amore, un’espressione culturale.
Quando hai capito che avresti voluto dedicare la tua vita alla cucina?
Non sono stato io a scegliere la gastronomia ma lei a scegliere me. Sai, io tengo sempre aperta la porta dell’inaspettato. Ci sono entrato e non ne sono più uscito. La passione e l’amore per la cucina si tramandano nella mia famiglia da generazioni. Mia nonna non era una grande cuoca perché doveva cucinare, era obbligata, al contrario di mia mamma, bravissima, perché amava farlo. Quando decisi di cambiare percorso di vita, fu mia madre a convincere tutti che non sarei mai stato un bravo avvocato e che avrei dovuto incanalare tutte le mie energie in un progetto in cui credevo. Mio padre non era d’accordo e ricordo che, in una delle tante discussioni, gli dissi: ‘vedrai che un giorno porterò le tre stelle a Modena!’, e da allora quell’obiettivo è stato un faro costante. Non è stato facile. Nei momenti più bui ho sempre tenuto duro, perché dovevo dimostrare che mia madre aveva ragione. Oggi non potrei immaginare la mia vita lontano dalla cucina. La musica l’arte, la creatività, la ricerca, la tradizione, il territorio: è tutto collegato, è il mio linguaggio, è il percorso che è la mia vita. Ho sempre insegnato ai miei ragazzi ad andare in profondità nelle cose perché un giorno quegli interessi si trasformeranno in passioni, ed è attraverso le passioni che si vivono e si trasmettono le emozioni.
Hai sempre dichiarato che è stata Lidia Cristoni a insegnarti la cucina emiliana. Quanto pensi sia stato importante per la tua formazione culinaria poggiarsi su basi così semplici, autentiche?
Un giorno di marzo del 1986 si è aperta la porta della Trattoria del Campazzo ed è entrata la Lidia Cristoni. Picasso diceva: “a dodici anni dipingevo come Raffaello ma ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”. Quell’incontro fu fondamentale per imparare la professione. Bisogna conoscere la tradizione alla perfezione per poter poi cucinare “come un bambino”. Lidia bussò alla porta del Campazzo e mi raccontò che aveva 35 anni di esperienza professionale, che purtroppo non ci vedeva granché ma che le sarebbe piaciuto darmi una mano. Le dissi: “Lidia, si metta il grembiule e mi faccia vedere cosa sa fare”. È entrata in cucina e non ne è più uscita. È stata un’insegnante di vita e una seconda mamma. Era quasi cieca ma mi ha aiutato a vedere il mondo come nessun altro. Il più importante insegnamento è stato di dedicare una mezz’ora alla squadra prima di ogni servizio, per condividere un pasto come una famiglia. Abbiamo tirato la sfoglia insieme per sette anni, provato e riprovato il ripieno dei tortellini, cotto centinaia di chili di bollito a fiamma alta, ma abbiamo anche iniziato ad innovare la tradizione guardandola con gli occhi di un bambino, da sotto al tavolo con una diversa prospettiva. In quel momento nascevano i germogli di quella che sarebbe stata l’Osteria Francescana.
Come si rompe con i ricettari del passato senza voltare le spalle alla tradizione italiana?
Guardando il passato in modo critico e mai nostalgico per portare il meglio del passato nel futuro. Un grande artista, Ai Weiwei, lascia cadere un vaso di 2000 anni e con quel gesto non ci comunica che sta prendendo le distanze dal suo passato, bensì lo rompe per poi ricostruirlo, guidato da un pensiero contemporaneo, L’idea principale che ha alimentato il mio lavoro negli ultimi 25 anni è quella della Tradizione in Evoluzione. Non possiamo prescindere da sapori che sono stati distillati da secoli di storia ma allo stesso tempo la nostra cucina è come un laboratorio: osserviamo, sperimentiamo, collaboriamo, condividiamo, traendo ispirazioni dalla biodiversità culturale della squadra. Creare distacco ci permette di giocare con i nostri ricordi e cercare nuovi modi per renderli accessibili, anche a coloro che non condividono i sapori della nostra infanzia. Questo significa avere una profonda conoscenza della memoria, così che possa sopravvivere attraverso un costante lavoro di evoluzione.
Al Louis XV, al fianco di Georges Cogny, hai appreso il concetto di pulizia gustativa. Che cosa significa?
Per essere contemporanei davvero bisogna conoscere tutto per poi dimenticarsi di tutto. Dopo qualche anno di cucina tradizionale ho sentito il bisogno di esplorare la Francia, le sue salse, la sua storia, la sua tecnica, il suo rigore. L’occasione mi si è presentata con Georges Cogny. Per questo, ogni lunedì e martedì, i giorni di chiusura del Campazzo, andavo alla Locanda Cantoniera, a Piacenza, per scoprire, per approfondire. Da Georges ho appreso come applicare tecniche classiche francesi alla cucina del territorio, creando così una nuova cucina Emiliana. Ero concentrato su questo nuovo modo di cucinare ed ero in estasi per questo, ma il vero insegnamento che Georges mi ha dato è quello di credere nel mio palato. Una sera, di ritorno da una serata straordinaria in Piemonte, gli chiesi perché mi avesse messo in imbarazzo davanti al sous-chef, chiedendomi cosa ne pensassi del piatto che stavamo per servire. Mi rispose: “perché il tuo palato farà conoscere Modena al mondo!”. Allora non gli ho prestai molta attenzione, ma negli anni capii l’importanza di quell’affermazione. Mi aiutò a credere in me stesso e a dare sempre ascolto al mio palato. Da Ducasse dopo ho imparato l’ossessione per la qualità…che è anche il segreto del successo.
Come ti ha influenzato in termini di ispirazioni il periodo newyorkese?
New York ha segnato una svolta nel mio modo di pensare. E questo lo devo a mia moglie Lara, che mi ha aperto la porta dell’inaspettato: quella dell’arte contemporanea. Fino a quel momento pensavo che l’arte finisse con Duchamp. Leggevo degli impressionisti, dei fauvisti, dei cubisti, dei futuristi ma non avevo mai esplorato il mondo della contemporaneità. Lara mi insegnò a non fermarmi all’estetica, ad approcciare le opere d’arte da una prospettiva diversa e andare in profondità nei concetti, o meglio capire l’espressione del tempo in cui l’artista aveva concepito l’opera. Mi rese visibile l’invisibile. Mi spiegò come i contemporanei avessero iniziato a imprimere sulla tela il proprio pensiero, la propria anima, invece che fare affidamento sulla sola abilità tecnica. Capii che l’arte contemporanea non finisce mai con quello che vedi di fronte a te, con l’estetica, ma che quello che conta è il pensiero che si nasconde dietro quel percorso estetico. È con questa nuova mentalità che, nel 1995, abbiamo inaugurato l’Osteria Francescana. Credevo di fare ritorno ad una cucina di successo, cucinando come al Campazzo. Ma il Campazzo non c’era più.
Il cibo è al centro anche del progetto che hai fondato nel 2016: Food for Soul. Dunque, la domanda sorge spontanea, che valore ha il cibo nella tua vita?
Per me la cucina è un gesto d’amore e il cibo è espressione culturale. Per questo credo che l’Osteria sia come una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee in cui si produce Cultura. Siamo ambasciatori dell’Agricoltura, facciamo Formazione, creiamo Turismo e ci impegniamo nel Sociale. Nei Refettori di Food for Soul, così come nei nostri locali, le ragazze e i ragazzi condividono il loro sapere per apprenderne di nuovo e dare vita ad un’espressione culturale contemporanea che si poggia su secoli di storia, per accogliere ospiti di tutto il mondo e farli sentire sempre a casa, in famiglia, aperti a partire per un viaggio culturale senza confini. La nostra cucina non è un ricettario, un elenco di ingredienti o di dimostrazioni tecniche, ma è un modo di raccontare il nostro territorio e le nostre passioni, di perpetrare un atto che non è mai matematico, ma puramente emozionale. Il senso più profondo della cucina è quello di diffondere cultura e per questo motivo gli chef devono avere un forte senso di responsabilità. Cultura, Conoscenza, Coscienza, Senso di Responsabilità.
La tua grande passione per l’arte e la bellezza ha trovato la sua massima espressione nella Gucci Osteria da Massimo Bottura a Firenze, all’interno di Palazzo della Signoria. Hai dovuto adattare il tuo menu scendendo a qualche compromesso?
Non direi la massima espressione, quella è e deve rimanere nel ristorante di Modena, dove parte della mia collezione d’arte è protagonista dell’esperienza culinaria stessa. Gucci Osteria ha una sua identità che è molto legata alla città in cui si trova, da Firenze a Beverly Hills, Tokyo o Seoul. È una vera Osteria in quanto vuol essere uno spazio conviviale. A Firenze si trova all’interno del Gucci Garden in Piazza della Signoria e il suo menu riflette la lunga storia di una Firenze che ospita viaggiatori da tutto il mondo e quindi vuole offrire una cucina che parte dai migliori ingredienti del territorio e dialoga con i concetti espressi dallo chef: Karime Lopez, messicana, che dopo aver vissuto in Giappone, Francia e Perù si distingue per un grande senso del gusto nonché la capacità di reinventare le tradizioni da cui è naturalmente influenzata, lasciando trasparire la propria eredità culinaria. In modo simile, Gucci Osteria Beverly Hills abbraccia i colori e la luce della California e la tradizione culinaria Italiana. Mattia, lo chef di Rodeo Drive, esprime il suo lavoro utilizzando i migliori ingredienti locali, senza mai dimenticare chi è e da dove viene. Gucci Osteria è più della dispensa di una nonna Italiana; si tratta di molteplici ricette di molteplici nonne, curate con un pizzico di nostalgia, un pizzico di ironia e la voglia di far sentire gli ospiti a casa, ovunque si trovino.
Hai altri progetti in serbo?
In un momento, come quello della pandemia, in cui ci è stato regalato del tempo preziosissimo, tutti avevamo il dovere di utilizzare questo tempo nel miglior modo possibile. Dal primo giorno di lockdown io e la mia famiglia abbiamo creato Kitchen Quarantine: le dirette Instagram tramite cui, ogni sera, forzati nei nostri appartamenti, condividevamo col mondo la nostra vita familiare senza filtri. Un format premiato con un Webby Award. A metà marzo 2020, abbiamo aperto il Refettorio di Mérida, in Messico e a metà maggio abbiamo inaugurato quello di Lima, in Perù. I nostri Refettori hanno continuato le loro attività, prendendosi cura della parte più vulnerabile della comunità e chiudendo il 2020 con quasi 500.000 pasti. Ma nel nostro futuro c’è sempre futuro per cui a Novembre sono arrivati i Refettori di Harlem, a NYC e San Francisco. Ma nei miei sogni c’è un Refettorio in ogni luogo in cui le comunità ne abbiano bisogno.
Dai primi mesi di lockdown abbiamo iniziato poi a lavorare insieme a Ferrari al progetto del Cavallino, a Maranello, il locale dove Enzo Ferrari pranzava ogni giorno e ogni domenica guardava il Gran Premio. Allo stesso tempo abbiamo definito il progetto per la terza Osteria Gucci a Ginza, Tokyo e la quarta a Seoul. A Modena, abbiamo da poco aperto Luigina, uno spazio privato di 400 m2 circondato da campi di farro e grano saraceno e collegato a Casa Maria Luigia. Sempre in piena campagna modenese, grazie all’aiuto di Maserati, Ferrari, Lamborghini, Ducati e Technogym abbiamo anche realizzato uno spazio multifunzionale, una ‘Polisportiva Contemporanea’ dove raccontiamo il significato di Slow Food and Fast Cars, e condividiamo il nostro amore per l’arte contemporanea. D’altronde, cos’è l’Emilia se non cibo lento, auto veloci e la gioia di condividere?
Un ringraziamento speciale a Massimo Bottura, facendogli il nostro migliore in bocca al lupo per la sua carriera e i suoi progetti futuri!
di Martina Tronconi