Una cascata di corpi bianchi, mozzi, contorti e sofferenti accoglie all’ingresso di CORPUS, la personale di Javier Marín a cura di Christian Barragán. Un riferimento all’Olocausto? La rappresentazione dell’Inferno di Dante? L’artista non lascia indicazioni a riguardo: En blanco, è l’unico riferimento del reticente titolo dell’opera. Perché – così come in tutte le altre 35 sculture dell’esposizione – al centro campeggia unicamente la figura umana, interesse privilegiato dello scultore messicano.
La mostra, inaugurata il 20 giugno scorso e aperta fino al 9 settembre presso il MUDEC – Museo delle Culture, riporta a Milano Javier Marín dopo dieci anni, quando nel 2008 le sue grandi teste femminili, le Cabezas, avevano già invaso il centro della città.
Oggi, nuovi e vecchi lavori sono esposti dentro e fuori il MUDEC: i Reflejos giunti direttamente dal Messico, i Nudos da Pietrasanta (dove si trova una galleria dell’artista), la monumentale Cabeza Chico Grande, concepita appositamente per questa esposizione, e persino un’installazione esterna, Reflejo VIII, già conosciuta in Italia perché protagonista della mostra al Labirinto della Masone, a Parma. L’arco temporale che ricoprono all’interno del percorso di Javier Marín è ampio e sottolineano i passaggi salienti della sua carriera.
Il lavoro dello scultore si concentra attorno all’essere umano, in particolare sul corpo, con uno studio di costruzione e decostruzione di forme e volumi. Un effetto ottenuto attraverso l’incisione di tagli e la scelta di materiali grezzi su cui rimangono ben visibili le impronte, i bulloni e i diversi pezzi che assemblati compongono la scultura. Una sorta di non-finito da cui il processo di costruzione emerge prima del risultato finale.
Con le parole dello stesso Marín: «Lo sviluppo e l’approfondimento dell’esercizio del “taglio” di una scultura finita lasciano visibili le linee che la costituiscono al suo interno. Questo genera una prospettiva differente dei materiali che la compongono». Tutte le opere infatti sono caratterizzate dall’utilizzo di materiali poveri come resina di poliestere, ferro e legno con qualche insolita sperimentazione (tabacco, segatura, sangue).
Il lavoro collettivo celato dietro ciascuna scultura è un tema caro all’artista, il quale mira a farlo affiorare anche dall’opera completata. La squadra che lo segue si rivela essenziale per i suoi lavori, tant’è che nella rappresentazione del riflesso – un leitmotiv di foucaultiana ispirazione che accompagna le sue riflessioni sull’umano – è stato visto proprio un omaggio all’appoggio e alla collaborazione del suo team.
Per quanto riguarda i significati e le interpretazioni fornite dalla critica, le versioni sono delle più varie, in quanto lo scultore lascia loro campo aperto. Non mancano riferimenti alla classicità, frutto della formazione accademica all’Università Nazionale Autonoma del Messico, e alla religiosità, data la profonda fede insita nelle radici messicane. L’esposizione, dunque, si rivela molto più che uno studio sull’insieme di forme e volumi del corpo, quanto piuttosto il preludio ad una profonda indagine sull’uomo che si cela dietro di esse.
di Gaia Lamperti