L’arte di Nari Ward: un upcycling devozionale
La mostra esplora le opere più incisive del percorso trentennale dell’artista di origine giamaicana. Le sue installazioni sono create dal riutilizzo di materiali preesistenti, la maggior parte dei quali è ricavata proprio dal sito stesso in cui verranno nuovamente esposti, in una forma di significazione alternativa. Possiamo parlare – per usare un termine contemporaneo molto in voga – di upcycling.
Nell’arte di Nari Ward, l’investigazione di ogni oggetto coinvolge il suo aspetto fisico tanto quanto la sua valenza simbolica. Le sue opere alludono al senso di appartenenza, raccontano l’esodo e la migrazione, esplorano il concetto di casa. Gli oggetti riutilizzati diventano, in un contesto di tipo allegorico, uno strumento emblematico di devozione.
Ground Break: sovversione di materiali e collaborazioni interdisciplinari
Ground Break si presenta, a partire dal titolo stesso, come una mostra sovversiva. La parola break, che in inglese significa pausa ma anche rottura, è accostata a ground, che sta per terreno, ma anche per fondamento. Un titolo che anticipa l’idea di sospensione di cui parleranno le opere in esposizione.
Ma non si tratta solo di una mostra visiva: Ground Break, con la curatela di Roberta Tenconi e Lucia Aspesi, è un progetto incentrato sulla collaborazione e la performatività. Il programma prevede, infatti, azioni collaborative con diversi artisti che si svolgeranno in contemporanea all’esposizione, per tutta la sua durata. Parte fondamentale per creare un coinvolgimento a 360 gradi nelle installazioni è anche l’aspetto sonoro, in cui sono stati coinvolti l’artista Justin Randolph Thompson e altri musicisti.
Le opere principali
Ground Break mette in mostra per la prima volta a Milano le opere più significative del percorso di Nari Ward, dalle più recenti a quelle più datate. Video, lavori sonori e sculture s’intrecciano nello stesso dialogo intricato che costituisce ogni opera a sé stante.
Fra le tante, ricordiamo l’apertura con Hunger Cradle, opera aperta datata 1996-2024 che si presenta come una ragnatela di oggetti che, ovunque si posa, raccoglie qualcosa. È così che, anche all’Hangar Bicocca, l’opera si è arricchita di nuovi elementi. A inizio esposizione si trovano anche i Geography (1997-2024), che ricreano scenari urbani nei quali si scontrano concetti culturali e l’eterna lotta tra modernità e tradizione.
La mostra si chiude con la ventiseiesima opera: Apollo (2017). È un’insegna luminosa originaria dell’Apollo Theatre di Harlem, luogo in cui l’artista si è trasferito da ragazzo e che ha costituito il centro vitale della popolazione afroamericana nel Novecento.