Un baule misterioso, una collezione preziosa, un’opera lirica che ha fatto la storia. Tutto questo e molto di più è racchiuso nella mostra Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini, Caramba, che inaugura magistralmente la riapertura del Museo del Tessuto di Prato e che sarà visitabile dal 22 maggio al 21 novembre 2021. Un percorso in tre parti nel quale si intersecano le storie dell’artista e scenografo Galileo Chini, del costumista Luigi Sapelli in arte Caramba, e del maestro Giacomo Puccini, uniti dal fil rouge di un’opera che vive di un sogno chiamato Oriente.
Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini, Caramba al Museo del Tessuto di Prato
È il 2018. La Conservatrice del Museo del Tessuto del Prato, Daniela Degl’Innocenti, riceve un misterioso baule contenente alcuni abiti di scena di inizio ‘900. Il baule era appartenuto a una grande soprano degli anni ‘20 e ‘30, Iva Pacetti, nativa della stessa Prato. Non passa molto tempo prima che Degl’Innocenti si renda conto di che cosa ha di fronte. Tessuti laminati, modelli a kimono, una manica decorata con un magnifico pavone: un immediato confronto con fonti d’epoca, fra cui i figurini e gli inventari del Teatro alla Scala di Milano, non lascia dubbi. Quelli sono gli abiti della Principessa di Ghiaccio, Turandot, realizzati per la prima assoluta dell’omonima opera di Giacomo Puccini andata in scena alla Scala il 25 aprile del 1926.
Da quel momento, ha inizio la genesi di una mostra che richiederà tre anni di tempo per essere aperta, complice anche il ritardo dovuto a una pandemia. Da quei costumi parte infatti un percorso che porta Degl’Innocenti e lo staff del Museo del Tessuto a ricercare la relazione fra il loro creatore, il costumista Caramba, primo vero costumista del Novecento, Giacomo Puccini e Galileo Chini, ovvero colui che realizzò le scenografie della Turandot. Scenografie che rappresentano da un lato un tripudio di stile Liberty, di cui l’iconica corona di Turandot è il simbolo per eccellenza; dall’altro, la fascinazione di Chini per l’Oriente, da lui vissuto per ben tre anni alla corte di Re Rama VI in Siam (l’odierna Thailandia).
Un tuffo in un regno incantato
Suddivisa in tre parti, la mostra Turandot e l’Oriente fantastico è un vero e proprio viaggio, un’immersione in un’atmosfera fra il sogno e la realtà mentre si viene trasportati sì in un’altra epoca, ma anche in un altro mondo.
La prima parte della mostra è dedicata proprio al Siam di Galileo Chini, che arriva fino a noi tramite la collezione di oggetti, abiti e manufatti da lui riportati al termine del suo viaggio. Grazie alla collaborazione con il Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze e della Curatrice Monica Zavattaro, la collezione di Chini fa da anticamera e da contesto alla parte dedicata alla Turandot, con maschere, ceramiche e dipinti dello stesso artista che anticipano i motivi, i disegni e i colori della messinscena pucciniana.
Proseguendo nell’esibizione, il mondo della Principessa di Ghiaccio si apre di fronte al visitatore. Tele provenienti dalla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti rimandano ancora all’universo siamese vissuto da Chini, ricco di commistioni con le culture cinesi, giapponesi e indiane. Dall’Archivio Storico Ricordi provengono inoltre i bozzetti finali delle scenografie della Turandot, dove viene mostrato lo sfarzo – rigorosamente in stile Liberty – della reggia della Principessa.
E poi, gli abiti. Un treno di costumi caleidoscopico, i cui colori e fattezze riempiono gli occhi come la più lussureggiante delle feste. Sete, pizzi, ikat fiammeggianti: 30 personaggi sfilano silenziosamente, arricchiti da accessori e gioielli sfavillanti, su cui la corona di Turandot regna sovrana. I costumi del Caramba sembrano quasi vivere di vita propria, restaurati e conservati sapientemente dalla Sartorie Devalle di Torino. C’è spazio anche per Iva Pacelli, la protagonista silenziosa della mostra, che pure indossò magistralmente i panni di Turandot e senza il cui baule questo Oriente fantastico non sarebbe mai andato in mostra.
di Martina Faralli