Se amate la banalità, questo libro non fa per voi. Se invece volete lasciarvi turbare da quarant’anni di relazioni amorose, alcol e sofferenze, avete colto nel segno.
“La campana non suona per te” entra in scena quando si pensa che Charles Bukowski abbia scritto tutto ciò che c’è da sapere su Bukowski: una raccolta di 44 racconti provocatori e paradossali, pubblicati nelle riviste underground americane tra il 1948 e il 1985, edita in Italia da Guanda nella collana Narratori della Fenice.
Cosa c’é da aggiungere a una produzione già vastissima di pensieri buttati giù con la penna in una mano e una bottiglia nell’altra? Le crociate contro la società, il conformismo e la guerra certamente non passano mai di moda.
Ed ecco che ci ritroviamo nella classica quotidianità bukowskiana di sesso e solitudine, scommesse e disillusioni: in questi racconti autobiografici, che spaziano dalla satira alla fantascienza, dal racconto di formazione al flusso di coscienza, decenni di storia americana sgorgano dalla mente controversa del vecchio sporcaccione, sempre perdente, sempre outsider.
Il suo realismo sporco, fatto di sobrietà e superficialità, ci riporta ai momenti bui e disperati trascorsi con la nostra mente, in cui ci chiediamo che cosa siamo e perché siamo qui. Bukowski ha risposto molto tempo fa: «Marty è pieno di sangue, no?» «Ma sicuro.» «Ė di quello che siamo fatti noi?» «Soprattutto di quello.» «Di cosa soprattutto?» «Soprattutto di sangue, ossa e dolore».
Le sue storie confermano l’ennesima messa a nudo delle debolezze umane, descritte con una prosa essenziale, che conducono a un solo finale, da cui nessuna donna o relazione può tirarti fuori. “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. […]E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te”, scriveva John Donne in Devozioni per occasioni d’emergenza nel 1624.
Ripreso da Hemingway in “Per chi suona la campana” come un interrogativo, per Bukowski è una sicurezza: la campana non suona per noi.
“Ė l’orrore che proviamo per noi stessi, e cioè di rimanere soli con noi stessi, che ci spinge ad amare; ma quest’amore dovrebbe sbocciare soltanto una volta e mai ripetersi. Ammesso che abbiamo imparato la lezione, come dovrebbe essere, vale a dire che noi siamo soli, tutti e ciascuno di noi, sempre e comunque, soli”.
di Ginevra Bonina