Milano è la città in cui le rivoluzioni più sconvolgenti hanno avuto l’odore inconfondibile dell’inchiostro. Leggendo le memorie di Laura Lepetit in Autobiografia di una femminista distratta (edizioni Nottetempo 2016), l’immaginazione ripercorre una rivoluzione in cui l’odore dell’inchiostro si mescola con quello delle sigarette e dei club jazz delle notti meneghine, corredo sensoriale della rivoluzione femminista ed editoriale al tempo stesso.
L’intreccio tra l’editoria e il femminismo inizia nel periodo in cui il mondo del libro e quello delle rivendicazioni sociali stavano cominciando ad infiltrarsi curiosamente per le strade della Milano dei primi anni ‘60, scoprendo nelle librerie e nei salotti del centro i luoghi privilegiati della loro manifestazione. Ciò che accomunava la consolidata storia dell’editoria milanese al nascente movimento femminista era la ricerca di uno spazio sottratto al frenetico ottimismo del boom economico postbellico, da cui poter scrutare il mondo in una prospettiva privilegiata, intimista e profonda.
Il racconto autobiografico di Laura Lepetit, in cui il ritmo della rappresentazione segue il passo placido di un diario personale scritto nella quiete della campagna, testimonia il privilegio di quegli anni accordato alla realtà sottaciuta, capace di trasformare il corso delle cose al pari di quella esibita, fino a farne un intento programmatico: “Non vorrei parlare dei fatti – scrive l’autrice – ma dei non fatti. Della tessitura nascosta in ogni giornata”. In effetti, ciò che accadde, quando il 2 aprile 1962, Laura Lepetit insieme alle amiche Vanna Vettori e Anna Maria Gandini, rilevarono la storica libreria Milano Libri, fu proprio la trasformazione di quello che comunemente potrebbe considerarsi un dettaglio irrilevante, un “non fatto” appunto, in un evento che avrebbe cambiato la storia dell’editoria e della donna.
Laureata in Lettere moderne alla Cattolica di Milano, Laura era solita frequentare con le amiche la libreria del signor Schwarzwald, sita a sinistra della Scala, dove coltivava la passione per i libri e il gusto per il dibattito culturale. Frequentava un gruppo di giovani e vivaci intellettuali milanesi, tra cui Oreste Del Buono, Umberto Eco e Giovanni Gandini, destinati a trasformare la loro amicizia in uno dei sodalizi più fecondi del panorama culturale italiano.
La Milano di quegli anni potrebbe rispecchiarsi nella scena iniziale di City of lights, in cui il clochard Chaplin si addormenta al riparo di una statua raffigurante la dea della fecondità, per poi essere svegliato dalle urla dei manifestanti di una parata politica. Dalle esibizioni di Jannacci e Valdi sul palco del Derby Club di viale Monte Rosa, passando per le splendide inquadrature della periferia cittadina catturata da Antonioni, la notte milanese accoglieva artisti di ogni calibro finché la seriosità diurna non arrivava a infrangere l’incanto. Fu in questo contesto che Laura Lepetit, decise di trasformare quel non fatto, in quanto appartenente alla sfera privata e se vogliamo “notturna” nel senso suddetto, della sua passione per i libri, nel fatto pubblico dell’acquisizione della libreria in via Verdi 2.
Chi vive tra i libri ha il privilegio di passeggiare quotidianamente sulle banchine di una stazione: si vedono arrivare treni da posti sconosciuti e se ne vedono partire altri per destinazioni allettanti, ma soprattutto ci si espone agli incontri più interessanti perché del tutto imprevisti. Fu così che Laura Lepetit conobbe la fondatrice di Rivolta Femminile, Carla Lonzi, dalla quale apprese un nuovo modo di comprendere ed esprimere la propria femminilità: il raccontarsi.
Lepetit ricorda allora le riunioni che tutti i giovedì sera si svolgevano a casa di Carla e poi in altre case a turno, dove ci si sedeva in cerchio a parlare. “Era la prima volta – scrive Lepetit – che le donne si parlavano direttamente senza la maschera che il patriarcato le aveva costrette a indossare”. Affascinata dalle sensazioni che emergevano e riempivano quelle stanze insieme alle nuvole di fumo delle infinite sigarette, Laura decide di fondare una casa editrice che pubblicasse esclusivamente libri di donne. Fu così che dalla trama di quelle riunioni, anch’esse “non fatti” poichè svoltesi in una dimensione appartata dalla scena pubblica, nacque il fatto di durata cinquantennale della Casa Editrice “La Tartaruga”, riservata esclusivamente alla pubblicazione di testi scritti da donne.
La scelta stessa del nome, per denotare la nuova avventura editoriale, porta con sé l’avvicendarsi progressivo dei due percorsi, quello dell’attività editoriale e quello della militanza femminista, nella vita professionale e privata della scrittrice. Come dichiara Lepetit in un’intervista rilasciata a La Repubblica : “Scelsi La tartaruga perché l’animaletto simboleggiava una lentezza e un’autonomia proverbiali. Non volevo correre e, soprattutto, non volevo dipendere eccessivamente dal mercato”.
L’adozione della lentezza e dell’autonomia come parametri di una nuova realtà imprenditoriale potrebbe riscuotere impopolarità in una società caratterizzata fino ad allora dalla celebrazione dei valori filo-americani della velocità e dell’interdipendenza globale e consumistica. Eppure, il successo enorme della Casa Editrice definita da Rosaria Guacci “un’Adelphi al femminile” consiste proprio nella scelta di quei valori anticonvenzionali che individuano la peculiarità dell’esser donna nella valorizzazione di una dimensione del tempo altra da quella propugnata dalla società maschilista.
Dalla Casa Editrice agli incontri di Rivolta Femminista, emerge il ritratto di una donna che sa legarsi costantemente ad una precisa dimensione del tempo: quella dell’intessere insieme tutti gli interstizi del tempo, prendendosi cura anche di quelli apparentemente vuoti per trarre da essi nuove ragioni per ricominciare. Si tratta di un tempo scandito dai vicoli appartati dei non fatti, dove scorre la vera vita pulsante delle cose prima di riversarsi nelle piazze affollate dei fatti esibiti. Allora, Lepetit sembra suggerirci che la femminilità, come l’editoria, si declina nell’arte della tessitura: nell’intreccio sapiente di racconti diversi, cercando tra essi il filo interessante che li unisce. Per far questo, però, bisogna guardare con humour e attenzione gli spazi vuoti e incompresi dal mondo maschile; insomma essere, su consiglio dell’autrice, delle femministe distratte.
di Katia D’Addona