Il primo Beetlejuice, uscito nel 1988, ha rappresentato un pilastro fondamentale nello sviluppo dello stile unico di Tim Burton. Un mix esplosivo di umorismo stravagante, estetica gotica e gore cartoonesco che, assieme a Edward mani di forbice, ha definito l’inizio della sua carriera. La trama, nonostante l’apparente complessità visiva, era relativamente semplice: due persone scoprono di essere morte e imparano a vivere come fantasmi, una sorta di guida pratica per l’aldilà che ha affascinato il pubblico di allora.
Tuttavia, questa semplicità ha reso difficile l’idea di un sequel convincente. Dopo 35 anni, Beetlejuice Beetlejuice arriva con un pesante fardello, cercando di ricreare la magia del passato senza sembrare una mera ripetizione. Purtroppo, come presentato al Festival di Venezia, il film appare un’opera confusa e sovraccarica, un intricato coacervo di trame che finisce per risultare quasi astratto, tradendo la freschezza del film originale.
Un incontro generazionale e stilistico
Il film segna un incontro tra passato e presente, non solo attraverso i personaggi ma anche stilisticamente. Da Winona Ryder a Jenna Ortega, Burton riprende la giovane attrice, ormai divenuta un’icona contemporanea grazie alla serie Mercoledì, e la filma con lo stesso affetto riservato a Ryder negli anni ’80 e ’90. Entrambe le attrici, con i loro grandi occhi espressivi, rappresentano un filo conduttore che unisce il vecchio e il nuovo cinema di Burton, creando un ponte tra le due epoche. L’incontro generazionale tra Lydia (Ryder) e sua figlia Astrid (Ortega) diventa una metafora del cinema di Burton, che con Beetlejuice Beetlejuice ritrova un’ispirazione vibrante, mescolando il passato glorioso con un presente altrettanto suggestivo.
Non poteva mancare il ritorno di Michael Keaton nel ruolo del bizzarro Beetlejuice e di Catherine O’Hara come Delia, la matrigna di Lydia. Questi personaggi, con le loro interpretazioni eccentriche, sembrano schizzi di una pittura astratta che cattura perfettamente lo spirito del film, con momenti che richiamano il cinema di animazione e l’horror gotico di Mario Bava, evidente in citazioni come quella da Operazione paura. Burton continua a dialogare con il cinema del passato, integrando elementi di musical-horror, dark comedy e teen movie, come una serenata macabra che esplode in una gioia visiva.
Un’eredità complessa
Nonostante alcuni sprazzi di brillantezza visiva e l’incrocio riuscito tra vari generi, Beetlejuice Beetlejuice fatica a mantenere una coerenza narrativa. I numerosi fili della trama si intrecciano senza mai convergere realmente, lasciando molte questioni irrisolte e personaggi come Delores, l’ex moglie assassina di Beetlejuice interpretata da Monica Bellucci, relegati ai margini. La stessa Astrid, pur interpretata con impegno da Jenna Ortega, non riesce a emergere come un personaggio altrettanto memorabile rispetto ai protagonisti dell’originale.
Tuttavia, il film riesce a catturare quel senso di meraviglia che ha sempre contraddistinto il cinema di Burton. Con un approccio che richiama La sposa cadavere e Dark Shadows, il regista combina la sua passione per il cinema gotico e il surrealismo con una narrazione moderna che, pur avendo difetti, brilla di una vitalità ritrovata. Beetlejuice Beetlejuice potrebbe non raggiungere la perfezione del suo predecessore, ma offre comunque uno spettacolo visivo e una nostalgia per il cinema che riescono a catturare l’attenzione.
In definitiva, Beetlejuice Beetlejuice è un film che non teme di guardare indietro al glorioso passato del suo predecessore, ma che tenta anche di avanzare con audacia in un panorama cinematografico contemporaneo. La pellicola, pur con i suoi alti e bassi, rappresenta un altro tassello nella complessa e affascinante carriera di Tim Burton, un regista che continua a sorprendere e a dividere il pubblico con il suo inconfondibile stile.