Il sogno ovattato
Scritto e diretto da Andrew Dominik, che cercava questo film da 14 anni, “Blonde” elabora un personale tentativo di empatizzare con la storia di Marilyn Monroe.
Ciò che colpisce è come il film riesca a mostrarci una Norma Jean/Marilyn pura, nonostante non faccia che raccontare cronologicamente la vita drammatica dell’attrice: l’infanzia di sballottamenti e noncuranza, il difficile rapporto con la madre ricoverata in psichiatria, l’assenza profonda del padre, gli abusi sessuali e non ultime le precarie relazioni sentimentali.
Certo, non manca qualche invenzione che romanza la storia, ma ciò che conta è come il regista cerchi di portarci a fianco di un sentimento e di un animo, che si ipotizza deve aver vissuto l’attrice.
Marilyn in questo film rimane intatta, restituendo giustizia a un mondo di riflettori e violenze che hanno cercato di disintegrarla. La scelta di raccontare il film in semi-soggettiva, alternando anche con il bianco e nero, potrebbe risultare banale, ma la cura con cui viene alternato al colore, e la delicatezza della regia (interessante l’impiego di lenti dall’effetto “swirly bokeh”), ci restituiscono quel bilico in cui viveva Marilyn, costantemente tradita e delusa da chi le stava intorno. Delusioni che ovattano la sua vita fino a renderla irreale come un sogno.
Lo sguardo imprigionato
Lo sguardo non è mai univoco e stabile, ma essendo frutto di intenzioni, relazioni, è sempre in bilico. Cosa rimane allora? Rimane ciò che viene guardato in tutta la sua semplicità, Marylin. La sua personalità soffocata, la dolcezza della sua immagine e il suo sguardo ancora lì, come sospeso.
Dominik prova a raccontarci questa Marilyn, una donna troppo fiduciosa verso gli altri, sempre “messa da parte” a guardare e a guardarsi. Due gravidanze fallite, la cui prima a causa della produzione, una madre noncurante e un padre assente, una vita messa all’angolo. Rimane quella maschera, il sé sotto i riflettori, vero e proprio “profilo” che rappresenta una Marilyn divisa.
La regia riesce a portarci dentro la dolcezza di quell’animo che dev’essere stato Marilyn. Pure nell’episodio dei barbiturici, Marylin ci viene mostrata nella sua purezza, in quel suo sguardo dolce e “innamorato”. L’atto di ingoiare le pillole diventa un atto di dolcezza verso se stessa, come se cercasse in un morbido riposo un ultimo rifugio. Ma la dolcezza stride con il dolore di un corpo rigettato.
Le immagini del feto, le parole del marito “pezzo di carne”, la scena con Kennedy etc…richiamano un immaginario artificioso che mette tra parentesi il corpo nell’urlo e nel dolore. E Dominik vorrebbe ripartire da qui, da quel’icona del cinema divisa nello sguardo, per ripensare l’audiovisivo stesso. Scrive in una nota di regia: “Non è forse il cinema stesso una macchina del desiderio? L’abbiamo in qualche modo uccisa noi stessi con il nostro sguardo?”