“Voglio raccontare un artista che sente di essere irrilevante e avverte il bisogno di dire a se stesso prima che agli altri che è ancora un grande cineasta, quindi a 60 anni rischia tutti i suoi soldi per un piccolo film”. Così esordisce Sacha Gervasi, il documentarista che con il suo Hitchcock, impressionante opera prima di fiction, ha aperto in grande stile il Noir Film Festival di Courmayeur.
La pellicola, in uscita proprio in questi giorni nelle nostre sale, racconta la genesi dell’affascinante e tormentata relazione tra il maestro del brivido Alfred Hitchcock e Alma Reville, la donna che sarebbe diventata sua moglie, nonché la sua più preziosa collaboratrice. Il film è una commedia ironica, pungente e anche un po’ romantica e vede il protagonista, interpretato da Anthony Hopkins, impegnato sul set di un film su cui inizialmente nessuno puntava, ma che si sarebbe rivelato un capolavoro del thriller: Psycho, del 1960, in grado di influenzare per sempre la storia del cinema. Accanto a lui, una straordinaria Helen Mirren, nei panni di Alma Reville, a testimonianza del fatto che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna.
Nel cast compaiono anche le bellissime Scarlett Johansson e Jessica Biel (rispettivamente nel ruolo di Janet Leigh e Vera Miles, ossia Marion e Lila Crane in Psycho), che hanno presentato il film a New York e che nel film appaiono impeccabili donne anni ’60, con un taglio corto bouffant e camicie attillate.
“Sono un regista vittima di uno stereotipo. Se girassi “Cenerentola”, il pubblico si aspetterebbe un cadavere nella carrozza”. Così Alfred Hitchcock amava descriversi. Ma il maestro del brivido, era davvero così “da brivido” anche nella vita privata, oltre che sul set?
Bambino buono e tranquillo, tanto da meritarsi dal padre il soprannome di “mio agnellino senza macchia“, ama stare seduto in un angolino a guardare gli altri in silenzio; non ha molti amici con cui giocare, è introverso e solitario, ma spesso ne combina davvero delle belle. All’età di 4-5 anni, per punirlo in modo davvero esemplare, il padre lo manda con una lettera al commissariato di polizia vicino a casa. Il funzionario, dopo aver letto il foglio, rinchiude il piccolo in una cella per una decina di minuti, ma è abbastanza da far crescere in Alfred la paura per tutti i poliziotti. Ai libri di scuola preferisce la fotografia e tutto ciò che ha a che fare con carte topografiche, mappe, e percorsi ferroviari. Ma soprattutto con il cinema. Appena possibile, frequenta le sale cinematografiche: i suoi miti sono Charlie Chaplin, David Wark Griffith, Buster Keaton, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e le sue opere preferite sono quelle americane, di gran lunga, a suo giudizio, migliori di quelle inglesi.
Ben presto, da semplice spettatore, diventa lui stesso protagonista di quel mondo che tanto lo appassiona. Tutto ha inizio quando riesce a ottenere dalla casa produttrice Famous Players l’incarico dei disegni e delle didascalie dei film in produzione. In questo modo ha occasione di avvicinarsi anche ad altri settori della casa di produzione, tra cui quello della sceneggiatura e del montaggio. Sono gli anni d’oro del cinema muto americano, quello in cui ritroviamo i capolavori di Griffith: “Nascita di una Nazione” (1914), “Intolerance” (1916), “Il Giglio Infranto” (1919); quelli di C. Chaplin, come “Il Monello” (1921), e di Stroheim, “Femmine Folli” (1921). E’ il 1922 quando Hitchcock debutta come regista. L’opera prima però rimane incompiuta negli archivi della Famous Players-Lasky. Anche il titolo è incerto, per la casa di produzione risulta “Mrs. Peabody”, mentre per lui è e resta “Number 13”. La sua seconda chance arriva nel 1923 quando subentra al regista Hugh Croise in rotta con la produzione; nasce una nuova società: la Balcon-Saville-Freedman e Alfred Hitchcock viene assunto in qualità di aiuto-regista, ma questo è solo il trampolino di lancio per la sua grande e luminosa carriera.
Ambizioso quanto basta, appena sente dire che c’è bisogno della sceneggiatura di una commedia per un film si propone egli stesso. Vince così la sua prima sfida, diventando sceneggiatore a tutti gli effetti. La commedia con cui deve cimentarsi si intitola “Woman To Woman” e il film omonimo viene diretto da Graham Cutts, un regista molto famoso a quel tempo. In quell’occasione Hitchcock ha modo di proporsi anche come scenografo, valendosi della sua forte esperienza di disegnatore. Fu negli anni venti-trenta, quando il cinema stava subendo un rapido quanto sconvolgente cambiamento, che Hitchcock venne alla ribalta: attraverso film come Il giardino del piacere (1925), L’aquila della montagna (1926), Il pensionante (1926). Tutti film che rispecchiano già quella personalità che poi avrà definitiva espressione nei film a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, ma che nello stesso tempo sono dei veri e propri esempi di cinema “puro”. Già nei film che egli realizzò in Inghilterra agli inizi della sua carriera, il motivo della suspence è alla base di racconti che, attingendo alla tradizione di certa narrativa gialla prettamente britannica, vi introducono da un lato un sottile umorismo e dall’altra una ricerca formale estremamente elaborata.
Con il periodo americano, invece, nasce un Hitchcok un po’ più commerciale e attento ai gusti del pubblico, sfornando così oltre cinquanta film in poco più di quaranta anni. Possiamo citare Rebecca, la prima moglie (1940), Notorius, l’amante perduta (1946), L’ombra del dubbio (1943), dove quell’angoscia derivante dall’ambiguità dei personaggi e delle situazioni e dall’attesa di qualcosa di irreparabile, si manifesta in termini fortemente drammatici. Accanto a questi primi film in cui si comincia a manifestare il gusto del misterioso, dell’enigmatico e attraverso i quali si denota una rappresentazione prospettica della realtà, con elementi continuamente mutevoli che permettono di osservarla da molti angoli visuali, nascono quelli che possono essere considerati certamente i film più completi della prima parte della sua carriera registica: Il delitto perfetto (1954), La finestra sul cortile (1954), L’uomo che sapeva troppo (1956), Caccia al ladro (1955), La donna che visse due volte (1958). Tutti film basati sul tema ricorrente del dubbio, dell’ambiguità, del contrasto tra apparenza e realtà.
La fine degli anni ’50 segna un profondo cambiamento nella poetica di Hitchcock, che adesso si orienta verso una più complessa e prospettica rappresentazione dell’angoscia contemporanea, in cui il dubbio e la paura affondano nel tessuto vitale di un’esperienza di vita che è quella dei nostri giorni. In uno stile più disteso, classico, maturo, l’abnorme, il misterioso, l’inconsueto nascono da una realtà perfino a tratti banale, si introducono nelle pieghe di un racconto che procede senza scosse, quasi fosse un resoconto di fatti di cronaca. Il brivido, adesso, è un elemento indispensabile per la resa spettacolare di una situazione drammatica che fornisce tutta una serie di indicazione per osservare la “quotidianità” con occhi irrequieti, indagatori. La realtà fenomenica, così, balza in primo piano, al di là delle costrizioni cinematografiche consuete, e questo maggior realismo della rappresentazione conferisce al film una dimensione maggiormente angosciante. Simbolo di questo nuovo modo di intendere il cinema è forse il film più conosciuto del regista inglese, Psyco (1960), più un horror che un thriller, dove il tema dell’angoscia si fa più esplicito e profondamente radicato nella vicenda e nei personaggi. La storia di questo pazzo, Norman Bates, che uccide i clienti del suo motel in nome di un complesso per molti versi freudiano, è la rappresentazione della paura dell’uomo di fronte al potere che assume gli aspetti della rispettabilità, del decoro, della normalità. Del 1963 è il famoso “Gli uccelli”, del 1976 la sua ultima pellicola, “Complotto di famiglia”. (http://www.hitchcockmania.it)
(di Federica Livio)