LA NOTTE, poetica descrizione di un degrado

La notte scende calda e profonda sulla terra fino a ricoprire il giorno e a scriverne la fine, avvolge gli uomini tranquilli in un delicato sonno e trascina le anime turbate verso la ricerca di un ignoto che possa fungere da risposta ai loro dilemmi e li ingloba così nel suo nero cuore, dentro il suo ventre gelido ma materno coccolandoli nel buio e svelando loro le verità sulla propria esistenza. Attoniti ed inermi gli uomini la stanno ad ascoltare, e all’ombra di una stella, riparati sotto le fronde o stretti al corpo di un altro essere piangono lacrime di rassegnazione nello scorgere i duri tratti del loro vissuto, gli sbagli incancellabili e la propria inettitudine a vivere. Il tutto culmina con il rimpianto ed una nuova eccitazione. La voglia di tornare ad esistere.

La Notte è un film del 1961, impregnato di tematiche decadenti che ci fanno ricordare quei gradi letterati che hanno indagato a loro volta il triste concetto dell’inettitudine alla vita, come Svevo, e dell’impossibilità di comunicare, naturalmente Pirandello. Ma sono tanti, moltissimi, forse tutti, gli autori che dal Decadentismo in poi hanno iniziato ad approfondire il tema dell’incapacità umana di esistere e rapportarsi con gli altri e con la società. Contemporaneamente a La Notte di Antonioni, Alberto Moravia pubblicava un suo grande romanzo, La Noia, emblema di una società in sfascio, quella borghese, illustrazione dei nuovi ricchi che ipnotizzati dalla brama del denaro, dallo sfarzo del vizio e dall’apparente divertimento stordente, si crogiolano nel tedio della propria esistenza e della propria vuota anima cinica e acida.

Dino, il protagonista de La noia, romanzo dal quale verrà poi tratto nel ’63 un lucidissimo film di Damiano Damiani, è un giovane ricco borghese che non ha nulla da condividere con il mondo, incapace di comunicare con gli altri nonostante si diletti con la pittura dipingendo quadri che lui stesso giudica orripilanti ed inutili, può essere paragonato ad uno dei personaggi del film di Antonioni, Valentina, interpretata da Monica Vitti, allora compagna del regista.

Valentina, oltre a condividere con Dino la stessa condizione sociale, anche lei figlia di borghesi altolocati, anche lei portatrice sana di un talento, quello della scrittura, trova inutile e noioso qualsiasi gesto e atteggiamento esercitato nel mondo. Registra i suoi pensieri e poi li cancella, come Dino che dipinge e poi distrugge il quadro. La noia pervade i loro animi turbati e marci, anime che non sono malvage ma putride, come un cibo andato a male, anime e intelligenze non sfruttate, lasciate a degradarsi sotto il sole di una società sorretta dalla vacuità e l’insensatezza mascherate da divertimento e capitalismo.

Questo settimo lungometraggio di Antonioni si inserisce perfettamente al secondo posto della sua trilogia dell’incomunicabilità, preceduto da L’eclisse e seguito da L’avventura, anche detta trilogia esistenziale perché si occupa proprio di lobotomizzare le vite dei protagonisti e studiarne nel particolare le psicologie, i turbamenti interiori e il loro rapporto con l’ambiente e con la società.

I veri protagonisti del film sono Giovanni, un intellettuale interpretato da un amatissimo Mastroianni ancora avvolto dalla fama lasciatogli dal successo Felliniano dell’anno precedente, La Dolce Vita, e Lidia, sua moglie. Una donna bellissima ma agonizzante, strangolata da un’esistenza vuota e dolorosa che la trascina a terra sotto la frustra di una quotidianità che si ripropone ogni giorno più pesante e feroce. Lidia, interpretata da Jeanne Moreau, essendo donna, mostra, come d’altronde sempre nei film di Antonioni, una maggiore lucidità. Il suo viso solcato da dolore e rassegnazione fin dai primi minuti della pellicola è il ritratto di una sofferenza intima e soffocata che gli fiorisce dentro e le mangia l’anima. Stanca dell’abitudine, stanca di cercare le attenzioni di un marito che non ama più, stanca di accerchiarsi di persone inutili ed insignificanti, devastata dalla consapevolezza di non essere niente di individuale ed autonomo ma solo l’appendice di un uomo di successo, girovaga negli ambienti desolati e poveri di Milano alla ricerca di una sorgente nuova di emozioni, si sofferma sui particolari delle periferie, attratta dal pianto di un bambino che probabilmente anche lei avrebbe voluto e la cui invece assenza la fa sentire ancora più inutile alla vita.

Cammina quasi imbambolata, attratta da un nulla che le si presenta evanescente all’orizzonte e la guida verso ambienti ignoti che le ispirano la scelta di una condivisione. Condividere è comunicare e finalmente al culmine della notte riesce a esprimere a Giovanni la sua sterilità nei confronti di questo rapporto, la sua incapacità di amarlo ancora e di continuare a sopportare la sua esistenza al fianco di un uomo che non la guarda più come un tempo e che pare aver annebbiato nel suo cuore i ricordi e i gesti del loro passato e sincero amore. Come marionette nelle mani di una società manipolatrice, si sono mossi fino ad oggi in un vortice che coinvolgeva e fagocitava tutti i burattini, risputandoli fuori esanimi e incapaci al risveglio. Ma loro, attratti da una più grande forza che è la speranza, sono riusciti ad uscire dal risucchio del capitalismo e si sono allontanati lasciandosi alle spalle la festa di borghesi ubriachi di inettitudine e avvolti dal viscido spleen che infradicia i corpi annoiati.

Come nella poesia di Baudelaire, anche ne La Notte di Antonioni è la pioggia a rinchiudere in una prigione i corpi moribondi di spirito dei partecipanti alla festa, che pervasi non dal divertimento ma da un inconscio desiderio di suicidio si gettano ubriachi e sazi di cibo e di idiozie nella piscina trapuntata di gocce. Gocce che scandiscono le sbarre della cella nella quale si stanno rinchiudendo, gettandosi come cadaveri in pasto al popolo di ragni che tenderà le proprie reti nei loro cervelli in disuso.

La notte non è mai così nera come prima dell’alba ma poi l’alba sorge sempre a cancellare il buio della notte” (Romano Battaglia)

 

di (Giulia Betti)

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