L’uomo che rubò Banksy. Il film evento nelle sale per soli due giorni
L’uomo che rubò Banksy, film evento del regista Marco Proserpio, che dopo la presentazione al Tribeca Film Festival e dopo essere stato presentato in anteprima al Torino Film Festival, arriva nelle sale italiane l’11 e il 12 di dicembre. Non è il solito documentario alla ricerca della vera identità dell’artista inglese.
Nessuno sa chi sia veramente ma tutti lo conoscono, riconoscono le sue opere, le postano sui social, le vendono. Sì, le vedono e le staccano brutalmente dalle pareti sulle quali erano state “concepite” per venderle al migliore offerente. Questa è la storia che il regista ha deciso di raccontare. La storia di un furto, di un’opera e del suo ladro.
Banksy e un muro da centomila dollari
È il 2007 quando Banksy e la sua squadra decidono di “ornare” il muro che separa Israele dalla West Bank. L’oggetto incriminato è lo stencil di un soldato israeliano che chiede i documenti ad un asino, non gradito dai palestinesi. La soluzione per non essere dipinti come asini agli occhi del resto del mondo? Staccare il muro e poi vendere l’opera d’arte! Questa impresa titanica è stata portata avanti da un imprenditore locale, Maikel Canawati, e un tassista, Walid.
Ora il muro è stato battuto all’asta su Ebay per una cifra superiore ai centomila dollari. Si susseguono scene di riprese fatte per strada a testimonianze di importanti figure del mondo dell’arte “di strada”, giornalisti, galleristi e avvocati. In particolare viene data voce alla figura di Walid, dandogli la possibilità di spiegare, per la prima volta, il motivo delle sue azioni.
Graffiti e conflitti
Iggy Pop accompagna la narrazione di questa vicenda, bislacca certamente, ma portavoce di importanti tematiche politico sociali. Prime tra tutte la nascita di un mercato parallelo ed illegale della rivendita di opere d’autore e l’analisi del tema della decontestualizzazione di queste. Mentre le opere di Banksy sono sensazioni pubbliche in Europa e negli Stati Uniti, il film mostra l’ambivalenza tra molti a Betlemme.
Gli anziani sono insultati dall’implicazione di essere asini, il che equivale a chiamare qualcuno “un idiota” nella società palestinese. Ma il documentario mostra l’effetto sui giovani palestinesi, che comprendono l’attenzione e la potenza che la street art può dare all’espressione individuale in mezzo al conflitto in corso.
di Rachele Conti