Ricordo i tormenti di un vecchio amico, che qui chiamerò “il Biker”. Mi raccontava, durante un caldo
pomeriggio estivo, di una serie di incidenti a lui occorsi durante gli ultimi sei mesi. Appassionato di moto
amava correre. E correva parecchio: multe, sinistri con colpa, fratture e altre difficoltà si erano succeduti
in un crescendo che ora lo preoccupava. Ascoltandolo in quello stato mentale di attenzione fluttuante
che spesso è portatore di interpretazioni penetranti, gli chiesi se aveva mai avuto la sensazione di essere
inseguito. L’effetto fu immediato: imbarazzo misto a sorpresa, attorcigliarsi del discorso e, in breve, sì
un persecutore c’era. Ovviamente vago e indistinto, capace di prendere varie forme che ora non starò a
dettagliare, ma un essere malvagio che rischiava di incollarsi a lui esisteva nella sua mente e da questo
ovviamente era necessario fuggire. Non aveva mai collegato la sua passione per le moto e la velocità
alla sua paura per questo “uomo nero”. L’ insight di quel caldo pomeriggio lo portò nelle settimane
successive a prendere contatto con uno psicanalista da me suggerito e così iniziò a dipanare l’intricata
matassa delle sue idee di inseguimento, sorveglianza e persecuzione. Gli esiti del lavoro di analisi che
raramente e parzialmente accettavo di ascoltare da lui furono soddisfacenti. Non mi stupì scoprire in lui
successivamente un senso di vuoto e di mancanza, quando riuscì ad affrancarsi dal suo fantasma; la perdita
del persecutore fu un vero lutto. Certo gli consentì di risparmiarsi rischiose “fughe ad altissima velocità” e,
cosa non meno rilevante, maggiore libertà di pensiero. Ora le sue energie psichiche non più immobilizzate
dal doversi proteggere e dallo scappare dal fantasma potevano essere investite in altri e più produttivi
progetti. Non meno pungente fu per il Biker trovarsi ad accettare che la serie di incidenti era stata da lui
causata, utile in qualche modo a rinforzare la sua idea di un destino malvagio che lo perseguitava, destino
di fatto da lui stesso parzialmente costruito in un circolo vizioso di conferme ai propri sospetti.
Sono certo che a prima vista potrà apparire incongruo accostare il nostro Biker all’apparenza uomo forte,
virile e sicuro alle vittime, le Colombe, di una figura di reato recentemente introdotta nel nostro Codice
Penale: lo stalking. Il provvedimento è stato salutato come giusta tutela delle vittime, soprattutto donne, di
quelle serie di atti persecutori che con appostamenti, pedinamenti, intrusioni nella vita personale e
pubblica ne limitano la libertà. È indubbiamente più che giusto punire tali persecutori. È assai interessante
studiare il loro profilo psicologico e molto è stato scritto al riguardo negli ultimi anni; meno materiale è
invece disponibile sul profilo psicologico delle vittime. Esse appaiono persone sane, normali e senza colpa –
e giuridicamente sicuramente lo sono – Colombe finite per loro sfortuna nelle rete di un malvagio e malato
persecutore. Eppure ascoltandole attentamente scopriamo in loro un inspiegabile senso di colpa per quanto
loro accaduto; pare istintivo, umano e fondato nella realtà tentare di spegnere tale sentimento di colpa.
Ma siamo certi che ciò sia davvero produttivo, crediamo davvero che privare le vittime di ogni
responsabilità sia il modo migliore per curarle dal trauma subito e portarle a una vera rinascita? O non
rischiamo così di mantenerle inchiodate allo stato di Colomba fragile e indifesa che potrà cadere
nuovamente vittima a dispetto dell’esperienza passata di un nuovo e inaspettato persecutore? Penso sia
necessario avere maggior coraggio, sapersi staccare maggiormente dal senso comune e dall’approvazione
sociale e suggerire a queste vittime, seguendo la via che loro stesse ci indicano, di assumersi solo le loro
vere colpe le loro reali responsabilità. Quali? Non certo quelle che con disgusto abbiamo a volte viste
attribuire alle donne vittime di violenza e persecuzione dai loro stessi aggressori: jeans attillati, scollature
generose e tacchi alti non sono colpe! E, udite udite, nemmeno elementi attraenti per i persecutori.
Cosa dunque espone al rischio di aggressione e persecuzione? Il senso di perenne allarme della vittima. È la
paura della vittima a eccitare il persecutore, paura che egli tenta di alimentare e mantenere con i suoi atti
di molestia, pedinamento, sorpresa e così via. Finalmente il discorso si fa più ampio e profondo; la vittima
potrà rinascere veramente e trovarsi protetta da nuove aggressioni non solo con la punizione, giusta, del
suo reale persecutore; potrà rinascere se, come il Biker, anziché vivere perennemente in fuga avrà il
coraggio di voltarsi a guardare negli occhi il suo fantasma. Certo tutto questo implica coraggio e assunzione
di responsabilità, occorre saltare il fosso della depressione per essere stati almeno parzialmente
responsabili delle proprie disgrazie, ma il senso di sicurezza che ne consegue sarà ricompensa a queste
fatiche.
Marco Farina
Psicoterapeuta